Il viaggio del Papa in Africa
Gli incontri di Francesco con i gesuiti della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan

La Chiesa
non è una multinazionale
della spiritualità

 La Chiesa  non è una multinazionale  della spiritualità  QUO-039
16 febbraio 2023

Sul prossimo quaderno de «La Civiltà Cattolica», in uscita sabato 18 febbraio, viene pubblicato, a firma del direttore, il resoconto delle due conversazioni di Papa Francesco con i gesuiti della Repubblica Democratica del Congo e del Sud Sudan, incontrati rispettivamente il 2 e il 4 febbraio, durante il viaggio apostolico in terra africana. Riportiamo la trascrizione integrale dei due colloqui.

Il 2 febbraio scorso, durante il suo viaggio apostolico nella Repubblica Democratica del Congo, Papa Francesco ha incontrato 82 gesuiti attivi nel Paese, guidati dal Provinciale, p. Rigobert Kyungu. Tra loro anche il gesuita mons. Donat Bafuidinsoni, vescovo di Inongo. L’incontro è avvenuto a Kinshasa in Nunziatura, alle 18.30, dopo il rientro dall’incontro di preghiera con i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate e i seminaristi presso la Cattedrale “Notre Dame du Congo”. Dopo una presentazione della Provincia fatta dal p. Kyungu, è stato lasciato spazio alle domande dei presenti.

Santo Padre, la Compagnia di Gesù riceve la sua missione dal Papa. Qual è la missione che lei dà alla Compagnia oggi?

Sono d’accordo con le preferenze apostoliche universali che la Compagnia ha elaborato. Esse consistono innanzitutto nell’indicare il cammino verso Dio mediante gli Esercizi spirituali e il discernimento.

La seconda è quella della missione di riconciliazione e di giustizia, che va fatta camminando insieme ai poveri, agli esclusi, a coloro che sono feriti nella propria dignità. E poi i giovani: bisogna accompagnarli a creare il futuro. Quindi la collaborazione nella cura della casa comune nello spirito della Laudato si’.

Io le ho approvate, e adesso i gesuiti devono incarnarle in ogni specifica realtà locale nelle modalità più adatte e adeguate, non in modo teorico e astratto. Ecco, voi dovete applicarle qui in Congo.

Certo, è chiaro che qui è forte il tema del conflitto, delle lotte tra fazioni. Ma apriamo gli occhi sul mondo: tutto il mondo è in guerra! La Siria vive una guerra da 12 anni, e poi lo Yemen, il Myanmar con il dramma dei rohingya. Anche in America Latina ci sono tensioni e conflitti. E poi questa guerra in Ucraina. Tutto il mondo è in guerra, ricordiamocelo bene. Ma io mi domando: l’umanità avrà il coraggio, la forza o persino l’opportunità di tornare indietro? Si va avanti, avanti, avanti verso il baratro. Non so: è una domanda che io mi faccio. Mi dispiace dirlo, ma sono un po’ pessimista.

Oggi davvero sembra che il problema principale sia la produzione di armi. C’è ancora tanta fame nel mondo e noi continuiamo a fabbricare le armi. È difficile tornare indietro da questa catastrofe. E non parliamo delle armi atomiche! Credo ancora in un lavoro di persuasione. Noi cristiani dobbiamo pregare tanto: «Signore, abbi pietà di noi!».

In questi giorni mi colpiscono i racconti delle violenze. Mi colpisce soprattutto la crudeltà. Le notizie che vengono dalle guerre che ci sono nel mondo ci parlano di una crudeltà persino difficile da pensare. Non solo si uccide, ma lo si fa crudelmente. Per me questa è una cosa nuova. Mi dà da pensare. Anche le notizie che arrivano dall’Ucraina ci parlano di crudeltà. E qui in Congo lo abbiamo ascoltato dalle testimonianze dirette delle vittime.

Lei ha un bel rapporto con il patriarca Bartolomeo. Come la Chiesa si sta preparando al 2025, quando ricorrerà il 1.700° anniversario del primo Concilio di Nicea?

Prendo spunto dalla tua domanda per ricordare un grande teologo ortodosso morto oggi, Ioannis Zizioulas, che è stato metropolita di Pergamo. È venuto in Vaticano a presentare la mia enciclica Laudato si’. Era un esperto di escatologia. Una volta gli chiesero quando ci sarebbe stata l’unità dei cristiani. Lui rispose, con sano realismo e forse pure con una sottile ironia: «Alla fine dei tempi!». Ricordiamolo nelle nostre preghiere.

Sì, stiamo preparando un incontro per il 2025. Con il patriarca Bartolomeo vogliamo arrivare a un accordo per la data della Pasqua, che proprio in quell’anno coincide. Vediamo se così possiamo accordarci per il futuro. E vogliamo celebrare questo Concilio come fratelli. Ci stiamo preparando. Pensate che Bartolomeo è stato il primo Patriarca che dopo tanti secoli è venuto all’inaugurazione del ministero di un Papa!

Come gesuita professo lei ha fatto voto di non cercare ruoli di autorità nella Chiesa. Che cosa l’ha spinta ad accettare l’episcopato e poi il cardinalato e poi il papato?

Quando ho fatto quel voto l’ho fatto sul serio. Quando mi hanno proposto di essere vescovo ausiliare di San Miguel, io non ho accettato. Poi mi è stato chiesto di essere vescovo di una zona al Nord dell’Argentina, nella provincia di Corrientes. Il Nunzio, per incoraggiarmi ad accettare, mi disse che lì c’erano le rovine del passato dei gesuiti. Io ho risposto che non volevo essere guardiano delle rovine, e ho rifiutato. Ho rifiutato queste due richieste per il voto fatto. La terza volta è venuto il Nunzio, ma già con l’autorizzazione firmata dal Preposito generale, il p. Kolvenbach, che aveva acconsentito al fatto che io accettassi. Era come ausiliare di Buenos Aires. Per questo ho accettato in spirito di obbedienza. Poi sono stato nominato arcivescovo coadiutore della mia città, e nel 2001 cardinale. Nell’ultimo conclave sono venuto con una valigetta piccola per tornare subito in diocesi, ma sono dovuto rimanere. Io credo nella singolarità gesuita circa questo voto, e ho fatto il possibile per non accettare l’episcopato.

Santo Padre, il bacino del fiume Congo, il secondo polmone verde del Pianeta dopo l’Amazzonia, è minacciato da deforestazione, inquinamento e sfruttamento intensivo e illegale delle risorse naturali. Lei pensa che si potrà fare un Sinodo su questa regione come quello realizzato per l’Amazzonia?

Il Sinodo sull’Amazzonia è stato esemplare. Lì si è parlato di quattro «sogni»: sociale, culturale, ecologico ed ecclesiale. Si applicano anche al bacino del Congo: c’è una somiglianza. L’equilibrio planetario dipende anche dalla salute dell’Amazzonia e del bioma del Congo. Non ci sarà un Sinodo sul Congo, ma certo sarebbe bene che la Conferenza episcopale si impegnasse sinodalmente a livello locale. Con gli stessi criteri, ma per portare avanti un discorso più legato alla realtà del Paese.

Si è parlato di sue possibili dimissioni. Davvero lei è intenzionato a lasciare il ministero petrino? E il Generale della Compagnia? Secondo lei, il suo incarico deve restare a vita?

Guarda, è vero che io ho scritto le mie dimissioni due mesi dopo l’elezione e ho consegnato questa lettera al cardinale Bertone. Non so dove si trovi questa lettera. L’ho fatto nel caso che io abbia qualche problema di salute che mi impedisca di esercitare il mio ministero e di non essere pienamente cosciente per poter rinunciare. Questo però non vuol affatto dire che i Papi dimissionari debbano diventare, diciamo così, una «moda», una cosa normale. Benedetto ha avuto il coraggio di farlo perché non se la sentiva di andare avanti a causa della sua salute. Io per il momento non ho in agenda questo. Io credo che il ministero del Papa sia ad vitam. Non vedo la ragione per cui non debba essere così. Pensate che il ministero dei grandi patriarchi è sempre a vita. E la tradizione storica è importante. Se invece stiamo a sentire il «chiacchiericcio», beh, allora bisognerebbe cambiare Papa ogni sei mesi!

Circa la Compagnia di Gesù: sì, su questo io sono «conservatore». Deve essere a vita. Ma, ovviamente, si pone la stessa questione che riguarda il Papa. Padre Kolvenbach e padre Nicolás, gli ultimi due precedenti Generali, hanno lasciato per motivi di salute. Mi sembra importante ricordare pure che un motivo del generalato a vita nella Compagnia nasce anche per evitare i calcoli elettorali, le fazioni, il chiacchiericcio...

Che cosa le dà gioia dell’inculturazione congolese e specialmente del rito congolese? Lei ha celebrato due volte in Vaticano in questo rito. E la terza volta è stato qui. Sembra che le piaccia molto. Poi vorrei farle una domanda sull’immagine della Chiesa come ospedale. Come può spiegarcela?

Il rito congolese mi piace, perché è un’opera d’arte, un capolavoro liturgico e poetico. È stato fatto con senso ecclesiale e con senso estetico. Non è un adattamento, ma una realtà poetica, creativa, per essere significativo e adeguato alla realtà congolese. Per questo sì, mi piace e mi dà gioia.

La Chiesa come ospedale da campo. Per me la Chiesa ha la vocazione dell’ospedale, del servizio per la cura, la guarigione e la vita. Una delle cose più brutte della Chiesa è l’autoritarismo, che poi è uno specchio della società ferita dalla mondanità e dalla corruzione. E la vocazione della Chiesa è alla gente ferita. Oggi questa immagine è ancora più valida, considerando lo scenario di guerra che stiamo vivendo. La Chiesa deve essere un ospedale che va dove c’è gente ferita. La Chiesa non è una multinazionale della spiritualità. Guardate i santi! Curare, prendersi cura delle ferite che il mondo vive! Servite la gente! La parola «servire» è molto ignaziana. «In tutto amare e servire» è il motto ignaziano. Voglio una Chiesa del servizio.

Lei ha voluto vescovi gesuiti. Tra noi c’è un gesuita chiamato all’episcopato. Che cosa si aspetta da loro?

La scelta di un gesuita come vescovo dipende esclusivamente dal bisogno della Chiesa. Io credo al nostro voto che tende a evitare che i gesuiti siano vescovi, ma, se serve per il bene della Chiesa, allora quest’ultimo bene prevale. Ti dico la verità: quando il Generale o i provinciali sanno che si sta pensando di fare vescovo un gesuita intervengono e sanno ben «difendere» la Compagnia. Se, però, poi si decide che è necessario, si fa. Altre volte — e sto pensando a un caso specifico —, se il primo della terna è un gesuita, ma poi c’è un secondo che può andare comunque bene, allora si sceglie il secondo della terna. Io credo al voto, ma prevalgono i bisogni della Chiesa.

Quali sono le sue più grandi consolazioni e le sue più grandi desolazioni?

La più grande consolazione è quando vedo gente semplice che crede. Mi fa bene. La mia consolazione è il santo popolo fedele di Dio, peccatore ma credente. Mi fanno invece provare desolazione le élites, peccatori e non credenti. Che i preti siano pastori di popolo e non monsieur l’Abbé, né tantomeno «chierici di Stato».

In alcuni Paesi ci sono accordi tra Stato e Chiesa. Ho il timore che questo dia un grande potere ai vescovi. Lei cosa ne pensa?

Questo spesso riguarda i rapporti tra lo Stato della Città del Vaticano e i vari Paesi. Il senso di questi accordi è di aiutare la Chiesa ad andare avanti, e non certo quello di coprire una mondanità ecclesiastica. Serve sicurezza per l’insegnamento, i ministeri, la predicazione libera del Vangelo. L’obiettivo, quindi, non è quello di tutelare interessi di altro genere. L’accordo deve riguardare il servizio, non la mondanità.

L’incontro si è concluso con una foto tutti insieme e con la consegna di alcuni doni al Santo Padre, che ha salutato tutti i presenti, uno per uno.

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Durante il viaggio apostolico in Sud Sudan, il 4 febbraio, intorno alle 11.15, Papa Francesco ha avuto un incontro a Giuba con gli 11 gesuiti che operano nel Paese e p. Kizito Kiyimba, Superiore della Provincia dell’Africa Orientale, che comprende Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Uganda, Kenya e Tanzania. Francesco era appena rientrato dalla Cattedrale di Santa Teresa, dove aveva incontrato i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate e i seminaristi. Il Provinciale ha presentato le attività della Compagnia nel Paese e nella Provincia, e poi ciascuno dei partecipanti ha presentato brevemente sé stesso. Sono seguite le domande.

Santo Padre, la fede si muove verso il Sud del mondo. I soldi no. Ha qualche paura, qualche speranza?

Se uno non ha speranza, può chiudere la porta e andarsene via! Tuttavia, la mia paura riguarda la cultura pagana molto generalizzata. I valori pagani oggi contano sempre di più: denaro, reputazione, potere. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che il mondo si muove in una cultura pagana che ha i propri idoli e i propri dèi. Denaro, potere e fama sono cose che sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali indica come i peccati fondamentali. La scelta di sant’Ignazio sulla povertà — a tal punto da far fare un voto speciale ai professi — è una scelta contro il paganesimo, contro il dio denaro. Oggi la nostra è anche una cultura pagana di guerra, dove conta quante armi hai. Sono tutte forme di paganesimo.

Ma poi, per favore, non siamo così ingenui da pensare che la cultura cristiana sia la cultura di un partito unito, dove tutti aggruppati insieme fanno la forza. Ma così la Chiesa diventa un partito. No! La cultura cristiana è, invece, la capacità di interpretare, discernere e vivere il messaggio cristiano, che il nostro paganesimo non vuole capire, non vuole accettare. Siamo giunti al punto che se uno pensa alle esigenze della vita cristiana nella cultura di oggi, ritiene che esse siano una forma di estremismo. Dobbiamo imparare ad andare avanti in un contesto pagano, che non è poi diverso da quello dei primi secoli.

Qual è il suo sogno per l’Africa?

Quando il mondo pensa all’Africa, pensa che, in un modo o nell’altro, essa vada sfruttata. Si tratta di un meccanismo inconscio collettivo: l’Africa va sfruttata. No, l’Africa deve crescere. Sì, i Paesi del Continente hanno ottenuto l’indipendenza, ma dal suolo in su, non sulle ricchezze che sono sotto. Su questo tema lo scorso novembre ho avuto un incontro con studenti africani in videoconferenza per quasi un’ora e mezza. Sono rimasto meravigliato dall’intelligenza di queste ragazze e ragazzi. Mi è molto piaciuto il loro modo di ragionare. Ecco, l’Africa ha bisogno di politici che siano persone così: bravi, intelligenti, che facciano crescere i loro Paesi. Politici che non si lascino traviare dalla corruzione, soprattutto. La corruzione politica non lascia spazio alla crescita del Paese, lo distrugge. A me colpisce il cuore. Non si possono servire due padroni; nel Vangelo questo è chiaro. O si serve Dio o si serve il denaro. Interessante che non dica il demonio, ma il denaro. Bisogna formare politici onesti. È anche il vostro compito.

Qual è il segreto della sua semplicità?

Io? Semplice? Io mi sento troppo complicato!

Quale guida ci può offrire per le situazioni in cui una fede forte si scontra con una cultura forte?

Ma il conflitto non sta sullo stesso piano! Cultura e fede sono in dialogo e devono esserlo. Certo, può darsi che una cultura forte non accetti la fede. E questa base di paganesimo non si è mai spenta nella storia. Ma attenzione: una forma di paganesimo è anche il formalismo esteriore di andare a Messa la domenica esclusivamente perché lo si deve, cioè senza anima, senza fede. La cultura forte è un vantaggio se è evangelizzata, ma non la si può ridurre a un’impossibilità di dialogo con la fede. A questo riguardo, è stata importante la Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano che si è tenuta a Puebla nel 1979. Lì è stata coniata l’espressione «evangelizzazione della cultura e inculturazione della fede». Nell’incontro tra cultura e fede, la fede si incultura. Per questo non puoi vivere qui a Giuba una fede che invece va bene a Parigi, ad esempio. Occorre predicare il Vangelo a ogni cultura specifica, che ha la sua inadeguatezza e la sua ricchezza.

Santo Padre, lei come prega?

Chiaramente dico la Messa e recito l’Ufficio. La preghiera liturgica quotidiana ha la sua densità personale. Poi a volte prego il rosario, a volte prendo il Vangelo e lo medito. Ma dipende molto dalla giornata. Per la preghiera personale, io, come tutti, dobbiamo trovare il modo migliore di viverla giorno per giorno. A Kinshasa, quando ho incontrato la gente vittima della guerra nell’Est del Paese, ho sentito racconti tremendi di feriti, mutilati, abusati... Hanno raccontato cose indicibili. Chiaro che io dopo non potevo certo pregare col Cantico del Cantici. Bisogna pregare immersi nella realtà. Per questo ho paura dei predicatori di preghiera che fanno orazioni astratte, teoriche, che parlano, parlano, parlano, ma con parole vuote. La preghiera è sempre incarnata.

Quando sarà beatificato padre Arrupe?

La sua causa sta andando avanti, perché una delle tappe è già conclusa. Ne ho parlato con il Padre Generale. Il problema più grande riguarda gli scritti del padre Arrupe. Ha scritto tanto e bisogna leggere tutto quanto. E questo rallenta il processo. E torno alla preghiera. Arrupe era un uomo di preghiera, un uomo che lottava con Dio ogni giorno, e da lì nasce il suo forte appello alla promozione della giustizia. Lo vediamo nel suo «testamento», il discorso che fece in Thailandia, prima dell’ictus, quando ha ribadito l’importanza della missione con i rifugiati.

Come si è sentito quando è stato cancellato il viaggio in Sud Sudan?

Mi sono sentito scoraggiato. Dovevo fare il viaggio in Canada, ma mi è stato detto di rinviare il viaggio in Africa perché non sarei stato in grado di sostenerlo a causa del ginocchio. Qualcuno malpensante ha detto che ho preferito andare in Canada a stare con i ricchi, ma non è così. Quello è stato un viaggio per incontrare gli aborigeni abusati. Sono andato lì a consolare gli abusati e a fare la pace con gli indigeni vittime del sistema scolastico nel quale è stato coinvolta anche la Chiesa. Ma appena è stato possibile sono venuto. Ho tanto desiderato questo viaggio! Però a Goma — tappa prevista l’anno scorso —, purtroppo, non sono potuto andare a causa della guerra e dei rischi conseguenti per la gente.

Come la «Laudato si’» è stata recepita in Africa?

Bene. Amazzonia e Congo hanno riserve di ossigeno per il mondo. E tutte e due sono aree sfruttate. E l’Africa lo è ancora di più a causa dei minerali dei quali è ricca. Un discorso sulla cura del creato è importante per ambedue i Paesi. I gesuiti a Kinshasa mi hanno chiesto se ci sarà un Sinodo sul Congo, come c’è stato per l’Amazzonia. Ho risposto che in quel Sinodo e nella Esortazione post-sinodale ci sono già gli elementi e i criteri utili anche per il Congo.

Che cosa si aspetta dai gesuiti qui in Sud Sudan?

Che siano coraggiosi, che siano teneri. Non dimenticate che Ignazio era un grande della tenerezza. Voleva i gesuiti coraggiosi con tenerezza. E li voleva uomini di preghiera. Coraggio, tenerezza e preghiera sono sufficienti per un gesuita.

Ha un messaggio speciale per i gesuiti dell’Africa dell’Est?

Che siano vicini al popolo e al Signore. Gli atteggiamenti fondamentali del Signore sono: vicinanza, misericordia e tenerezza. La vicinanza è chiara. Le istituzioni senza vicinanza e senza tenerezza faranno anche del bene, ma sono pagane. I gesuiti devono essere differenti.

Lei sta pensando alle dimissioni?

No, non mi è passato per la mente. Ho però scritto una lettera e l’ho data al cardinale Bertone. Contiene le mie dimissioni nel caso non fossi nelle condizioni di salute e di consapevolezza per poter rinunciare. Anche Pio xii ha scritto una lettera di rinuncia nel caso che Hitler lo avesse portato in Germania. Così avrebbero catturato Eugenio Pacelli e non il Papa.

Il Papa ringrazia tutti i presenti. Il Provinciale dice di non aver portato un dono, ma un canto. «Ma il dono siete voi stessi!», dice Francesco. Tutti si alzano e, prendendosi per mano — includendo il Pontefice —, elevano insieme questo canto di preghiera. Quindi Francesco saluta un gruppo di laici che opera per il «Jesuit Refugee Service».

Dopo aver salutato tutti, uno per uno, il Papa commenta: «Bello. C’è vita qui...».

di Antonio Spadaro