Il magistero

 Il magistero  QUO-039
16 febbraio 2023

Venerdì 10

Deforestazione
ed estrattivismo
minacciano
la vita
dei popoli
indigeni

Il tema di quest’anno — “Leadership climatica dei popoli indigeni: soluzioni basate sulla comunità per migliorare la resilienza e la biodiversità” — è un’opportunità per riconoscere il ruolo fondamentale che [essi] svolgono nella protezione dell’ambiente ed evidenziare la loro saggezza nel trovare soluzioni globali alle immense sfide [del] cambiamento climatico.

Stiamo assistendo a una crisi sociale e ambientale senza precedenti.

Se vogliamo prenderci cura della casa comune e migliorare il pianeta sono imprescindibili cambiamenti negli stili di vita, [nei] modelli di produzione e consumo.

Dovremmo ascoltare di più i popoli indigeni e imparare dal loro modo di vivere, per capire che non possiamo continuare a divorare avidamente le risorse naturali.

Il contributo dei popoli indigeni è fondamentale. È dimostrato scientificamente.

Molti richiedono un processo di riconversione delle strutture di potere consolidate che reggono la società, nella cultura occidentale.

Essi, al tempo stesso, trasformano le relazioni storiche segnate dal colonialismo, dall’esclusione e dalla discriminazione, dando luogo a un dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro.

Abbiamo bisogno di azioni congiunte, di una leale e costante collaborazione, perché la sfida ambientale e le sue radici umane hanno un impatto su ognuno di noi.

Impatto non solo fisico, ma anche psicologico e culturale.

Chiedo ai Governi di riconoscere i popoli indigeni di tutto il mondo, con le loro culture, lingue, tradizioni, spiritualità, e di rispettare la loro dignità e i loro diritti, consapevoli che la ricchezza della famiglia umana consiste nella sua diversità.

Ignorare le comunità originarie nella salvaguardia della terra è un grave errore — è il funzionalismo estrattivo — e una grande ingiustizia.

Valorizzare il loro patrimonio culturale e le loro tecniche ancestrali aiuterà a intraprendere cammini per una migliore gestione ambientale.

È encomiabile il lavoro del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad) per assistere le comunità indigene in un processo di sviluppo autonomo, grazie soprattutto al Fondo di Sostegno, sebbene questi sforzi vadano ancora moltiplicati.

Il vivere bene
e l’armonia

Desidero soffermarmi su due parole chiave: il vivere bene e armonia.

Il vivere bene non è il “dolce far niente”, la “dolce vita” della borghesia “distillata”.

È il vivere in armonia con la natura, il saper cercare... l’armonia, che è superiore all’equilibrio.

L’equilibrio può essere funzionale, l’armonia è sovrana in sé stessa.

Sapersi muovere nell’armonia: è questo che dà la saggezza che chiamiamo il buon vivere.

L’armonia tra una persona e la sua comunità, tra una persona e l’ambiente, tra una persona e tutto il creato.

Le ferite contro questa armonia sono quelle che stiamo vedendo che distruggono i popoli: l’estrattivismo dell’industria mineraria, nel caso dell’Amazzonia o in altri posti, la deforestazione.

Quando i popoli non rispettano il bene del suolo, dell’ambiente, del tempo, della vegetazione o della fauna... cadono in atteggiamenti non umani, perché perdono il contatto con la madre terra.

Non in un senso superstizioso, bensì nel senso di quella che ci dà la cultura e ci dà questa armonia.

Le culture aborigene non ci sono per essere trasformate in una cultura moderna. Ci sono per essere rispettate.

[Occorre] lasciare che proseguano nel loro cammino di sviluppo e ascoltare i messaggi di saggezza che ci danno.

Perché è una saggezza non enciclopedica. È la saggezza del vedere, dell’ascoltare e del toccare la vita quotidiana.

Continuate a lottare per proclamare questa armonia, perché questa politica funzionalista, questa politica dell’estrattivismo la sta distruggendo.

E che tutti possiamo imparare dal ben vivere in questo senso armonioso dei popoli indigeni.

(Alla sesta riunione del Forum promosso dall’Ifad, dedicato alle popolazioni autoctone)

Domenica 12

Dare
compimento

Dare compimento è una parola-chiave per capire Gesù e il suo messaggio. Ma che cosa significa?

Per spiegarla, il Signore comincia a dire che cosa non è compimento.

La Scrittura dice di “non uccidere”, ma questo per Gesù non basta se poi si feriscono i fratelli con le parole; dice di “non commettere adulterio”, ma ciò non basta se poi si vive un amore sporcato da doppiezze e falsità; dice di “non giurare il falso”, ma non basta fare un solenne giuramento se poi si agisce con ipocrisia.

Gesù si concentra sul “rito dell’offerta”. Facendo un’offerta a Dio si ricambiava la gratuità dei suoi doni.

Era un rito tanto importante che era vietato interromperlo se non per motivi gravi. Ma Gesù afferma che si deve interromperlo se un fratello ha qualcosa contro di noi, per andare prima a riconciliarsi con lui.

Gesù fa capire che le norme religiose servono, sono buone, ma sono solo l’inizio: per dare loro compimento è necessario andare oltre la lettera e viverne il senso.

I comandamenti non vanno rinchiusi nelle casseforti asfittiche dell’osservanza formale, se no rimaniamo in una religiosità esteriore e distaccata, servi di un “dio padrone” piuttosto che figli di Dio Padre.

Questo problema c’è anche oggi. A volte si sente dire: “Padre, io non ho ucciso, non ho rubato, non ho fatto male... Sono a posto”. È l’osservanza formale che si accontenta del minimo indispensabile, mentre Gesù ci invita al massimo possibile.

Possiamo chiederci: come vivo io la fede? È una questione di calcoli, di formalismi, oppure una storia d’amore con Dio? Mi accontento solo di non fare del male, di tenere a posto “la facciata”, o cerco di crescere nell’amore a Dio e agli altri? E ogni tanto mi verifico sul grande comando di Gesù, mi chiedo se amo il prossimo come Lui ama me?

(Angelus in piazza San Pietro)

Lunedì 13

La cultura luce
nelle tenebre
dell’odio

Vi ringrazio per quello che fate: offrite un bell’esempio di ricerca culturale appassionata e di cura per quel bene inestimabile che è la crescita formativa dei giovani.

L’educazione aiuta le generazioni a crescere, scoprendo e coltivando le radici più feconde, così che portino frutti.

Ciò corrisponde all’identità della Georgia, Paese giovane ma dalla storia antica, di cui conservo felici ricordi.

Mi viene in mente il Patriarca Ilia! Quando sono un po’ triste ascolto la sua musica, le sue canzoni!

Porto nel cuore gli incontri che abbiamo avuto, quando siamo stati l’uno a fianco dell’altro nel segno della tunica di Cristo; che il Vangelo descrive «tessuta tutta d’un pezzo» e che simboleggia l’unità della Chiesa.

La vostra Università rappresenta un esempio [di] collaborazione tra cattolici e ortodossi in ambito culturale e educativo.

Nella lingua georgiana il termine educazione, “ganatleba” deriva dalla parola luce e evoca il passaggio dall’oscurità dell’ignoranza alla luminosità della conoscenza.

Fa pensare a quando si accende una lampada in una stanza buia: non si modifica quanto c’è, ma cambia l’aspetto di ogni cosa.

Così è la conoscenza che acquisite nella vostra Università, la quale si propone di porre al centro la dignità della persona.

Attraverso lo studio e l’impegno si può giungere, come recitava l’antico oracolo di Delfi, a conoscere sé stessi.

Ed è importante anche per la fede, tanto che un monaco antico (Evagrio Pontico) scrisse: «Vuoi conoscere Dio? Comincia a conoscere te stesso».

C’è bisogno di questa benefica illuminazione del conoscere, mentre nel mondo si infittiscono le tenebre dell’odio, che provengono da dimenticanza e indifferenza.

Sono [loro] a far apparire tutto scuro e indistinto, mentre la cultura e l’educazione restituiscono la memoria del passato e fanno luce sul presente.

Ciò è indispensabile per la crescita di una società perché, come diceva un padre della vostra patria (I. Chavchavadze), «la caduta del popolo comincia là, dove finisce la memoria del passato». Al contrario, con l’aiuto di Dio, «tutto è possibile per un uomo istruito».

La cultura georgiana invita a tenere accesa la lampada dell’educazione e aperta la finestra della fede, perché entrambe illuminano le stanze della vita.

In georgiano la radice del termine luce compare [anche] nella parola battesimo, imparentando cultura e fede.

La storia della Georgia racconta tanti passaggi dall’oscurità alla luce, perché il vostro Paese è sempre riuscito a rialzarsi e risplendere, anche quando ha subito invasioni e dominazioni straniere.

Il vostro popolo, gioviale e coraggioso, accogliente e innamorato della vita, ha saputo coltivare, pure nei periodi più bui, un’attitudine positiva proprio grazie alla sua fede e alla sua cultura.

La Chiesa cattolica ha consentito feconde aperture culturali di cui ha giovato la storia del Paese. Voi rappresentate la continuità di tale apporto ed è bello che, in modo gioioso e costruttivo, alimentiate il servizio in terra georgiana della comunità cattolica.

Vi invito a continuare... so che alle facoltà esistenti state aggiungendo medicina.

Questo creare spazi e ponti per il bene è inscritto nel nome del vostro Istituto, dedicato al grande Sulkhan-Saba Orbeliani, diplomatico di notevole cultura e apertura.

I georgiani, a partire dai giovani, meritano di avere opportunità sempre più ampie. E al tempo stesso il tipico umanesimo georgiano merita di essere apprezzato altrove.

La luce ci è d’esempio anche in questo: essa non esiste per essere vista, ma per far vedere attorno e di più: così è la cultura, dischiude gli orizzonti e dilata i confini.

(Alla delegazione dell’Università Sulkhan-Saba Orbeliani di Tbilisi, Georgia)

Fermento di
riconciliazione
tra Dio
e gli uomini

Maria è sempre per il suo Popolo vincolo di comunione. Tanto la Scrittura quanto la tradizione apostolica la mostrano mentre riunisce gli apostoli e la comunità attorno a Sé, in un clima di preghiera.

[L’]esperienza fondante della prima comunità cristiana trascende le epoche e i luoghi, e la Madre di Gesù, in modo semplice, continua a chiamarci.

Ciò è stato espresso in molte parti del mondo con l’invito a costruire un tempio che fosse una casa con le porte aperte, casa di preghiera e comunione.

Oggi vi riunisce il dolce Nome di Maria, un appellativo millenario che già nella sua radice etimologica ci parla di meticciato, d’incontro con Dio e con gli uomini.

Meticciato perché gli studiosi non riescono a mettersi d’accordo se dobbiamo leggere il titolo “Guadalupe” in arabo, in latino o in nahuatl.

Ma ciò che potrebbe presentarsi come un conflitto [è] in realtà una “strizzata d’occhio” dello Spirito Santo che fa ascoltare il suo messaggio di amore a ognuno nella propria lingua.

Così in arabo la parola potrebbe suonare “fiume occulto”, come lo era quella fonte di acqua viva che Gesù promette alla Samaritana, quella forza della grazia che persino in tempi di rifiuto e incomprensione mantiene viva la Chiesa.

Come pastori, questa allusione deve essere uno stimolo a cercare sempre nell’altro quel fiume occulto di grazia.

Tutto cambierebbe se, come la Vergine, potessimo vedere nell’altro quel segreto; quanti fallimenti e conflitti eviteremmo.

Tuttavia, mescolandosi con il latino, la parola ci parlerebbe di un “fiume di lupi” e di un’oasi di pace per quanti sono tormentati dai peccati, dalla violenza, da guerre interne ed esterne che fanno dell’uomo un lupo per l’uomo.

È lo stesso fiume occulto della grazia che nel dialogo con Gesù ci mostra la nostra realtà, aprendoci alla speranza.

Come san Francesco, nel suo famoso incontro con il lupo, la Vergine di nuovo ci esorta a essere fermento di comunione e di riconciliazione tra Dio e gli uomini, incoraggiando tanti fedeli che si avvicinano al santuario a questo fine.

Infine, combinandosi con la radice messicana, Nostra Signora di Guadalupe si proclama come colei che vince il serpente, con un’evocazione del protovangelo della Genesi.

L’Immacolata è così la vera madre di tutti coloro che vivono. Vi incoraggio a far sgorgare dai cuori degli uomini e delle donne del nostro tempo quel fiume di acqua viva che sale fino al cielo, per rendere a Dio un culto in Spirito e Verità.

In ogni momento storico, in ogni cultura, il Vangelo, rimanendo sempre lo stesso, si arricchisce di significato.

Lungi dallo scartare, include ogni persona che lo accoglie.

Chiediamo a Dio che, in ogni tempo e luogo dove Maria ci chiama, rendiamo testimonianza di questa intima unione di cui soltanto lo Spirito può essere artefice.

(Messaggio per il gemellaggio del santuario spagnolo di Guadalupe a Toledo,
con quello messicano)

Mercoledì 15

Lo stile della missione è la
testimonianza

Proseguiamo le catechesi [su] “La passione di evangelizzare, lo zelo apostolico”. Perché evangelizzare non è dire: “Guarda, blablabla” e niente più. C’è una passione che coinvolge tutto: la mente, il cuore, le mani, andare...; tutta la persona è coinvolta con questo proclamare il Vangelo.

Dopo aver visto in Gesù il modello e il maestro dell’annuncio, passiamo ai primi discepoli, quello che hanno fatto.

Il Vangelo dice che Gesù «ne costituì Dodici, perché stessero con Lui e per mandarli a predicare». Due cose.

Sembra contraddittorio: li chiama perché stiano con Lui e perché vadano a predicare. Verrebbe da dire: o l’una o l’altra cosa, o stare o andare.

Invece no: per Gesù non c’è andare senza stare e non c’è stare senza andare.

Cerchiamo di capire qual è il senso.... Anzitutto non c’è andare senza stare.

Prima di inviare i discepoli in missione, Cristo li “chiama a sé”.

L’annuncio nasce dall’incontro con il Signore; ogni attività cristiana, soprattutto la missione, comincia da lì. Non si impara in un’accademia!

Incomincia dall’incontro con il Signore. Testimoniarlo, infatti, significa irradiarlo; ma, se non riceviamo la sua luce, saremo spenti; se non lo frequentiamo, porteremo noi stessi anziché Lui e sarà tutto vano.

Può portare il Vangelo di Gesù solo la persona che sta con Lui.

Uno che non sta con Lui non può portare il Vangelo. Porterà idee, ma non il Vangelo.

Ugualmente, però, non c’è stare senza andare. Infatti seguire Cristo non è un fatto intimistico. Senza annuncio, senza servizio, senza missione la relazione con Gesù non cresce.

Nel Vangelo il Signore invia i discepoli prima di aver completato la loro preparazione: poco dopo averli chiamati, già li invia! Questo significa che l’esperienza della missione fa parte della formazione cristiana. Ricordiamo allora questi due momenti costitutivi per ogni discepolo.

Prima di inviarli, Cristo rivolge un discorso, noto come “discorso missionario”. Si trova al capitolo 10 del Vangelo di Matteo ed è la “costituzione” dell’annuncio.

Da quel discorso, che vi consiglio di leggere — è una paginetta soltanto —, traggo tre aspetti: perché annunciare, che cosa annunciare e come annunciare.

Perché
annunciare

La motivazione sta in cinque parole di Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

L’annuncio non parte da noi, ma dalla bellezza di quanto abbiamo ricevuto gratis, senza merito: incontrare Gesù, conoscerlo, scoprire di essere amati e salvati.

È un dono così grande che non possiamo tenerlo per noi, sentiamo il bisogno di diffonderlo; però nello stesso stile, cioè nella gratuità.

Abbiamo un dono, perciò siamo chiamati a farci dono; c’è in noi la gioia di essere figli di Dio, va condivisa con i fratelli e le sorelle che ancora non lo sanno!

Cosa
annunciare

Gesù dice: «Predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino». Ecco cosa va detto, prima di tutto e in tutto: Dio è vicino.

Ma, non dimenticatevi mai di questo: Dio sempre è stato vicino al popolo... La vicinanza è una delle cose più importanti di Dio. Sono tre cose importanti: vicinanza, misericordia e tenerezza.

Noi, predicando, spesso invitiamo la gente a fare qualcosa, e questo va bene; ma non scordiamoci che il messaggio principale è che Lui è vicino: vicinanza, misericordia e tenerezza.

Accogliere l’amore di Dio è più difficile perché noi vogliamo essere sempre al centro, essere protagonisti, più portati a fare che a lasciarci plasmare, a parlare più che ascoltare.

Invece l’annuncio deve dare il primato a Dio e agli altri l’opportunità di accoglierlo.

Come
annunciare

È l’aspetto sul quale Gesù si dilunga maggiormente: qual è il metodo, quale dev’essere il linguaggio.

Ci dice che il modo, lo stile è essenziale nella testimonianza.

La testimonianza coinvolge tutto, mente, cuore, mani; i tre linguaggi della persona: il linguaggio del pensiero, il linguaggio dell’affetto e il linguaggio dell’opera.

Non si può evangelizzare solo con la mente o con il cuore o con le mani. Tutto coinvolge.

E, nello stile, l’importante è la testimonianza, come ci vuole Gesù.

Non ci chiede di saper affrontare i lupi, cioè di essere capaci di argomentare, controbattere e difenderci.

Noi penseremmo: diventiamo rilevanti, numerosi, prestigiosi e il mondo ci ascolterà e ci rispetterà e vinceremo i lupi: non è così.

No, vi mando come pecore, come agnelli. Se non vuoi essere pecora, non ti difenderà dai lupi. Arrangiati.

Ma se sei pecora, stai sicuro che il Signore ti difenderà. Essere umili. Chiede di essere così, miti e con la voglia di essere innocenti, disposti al sacrificio; questo infatti rappresenta l’agnello: mitezza, innocenza, dedizione, tenerezza.

E Lui, il Pastore, riconoscerà i suoi agnelli e li proteggerà. Invece, gli agnelli travestiti da lupi vengono smascherati e sbranati.

Se io voglio essere del Signore, devo lasciare che Lui sia il mio pastore e Lui non è pastore di lupi, è pastore di agnelli, miti, umili.

Niente bagagli

Sempre sul come annunciare, colpisce che Gesù, anziché prescrivere cosa portare in missione, dice cosa non portare.

A volte uno vede qualche apostolo che trasloca, qualche cristiano che dice che è apostolo e ha dato la vita al Signore e porta tanti bagagli: ma il Signore ti fa leggero di equipaggio. «Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone».

Non portare niente... non appoggiarsi sulle certezze materiali, [ma] andare nel mondo senza mondanità... che per la Chiesa è il peggio che possa accadere.

Vado con semplicità. Ecco come si annuncia: mostrando Gesù più che parlando.

E come mostriamo Gesù? Con la testimonianza. E andando insieme, in comunità.

Il Signore invia tutti i discepoli, ma nessuno da solo. La Chiesa apostolica è tutta missionaria e nella missione ritrova la sua unità.

Andare miti e buoni come agnelli, senza mondanità, e insieme. Qui sta la chiave del successo dell’evangelizzazione.

(Udienza generale nell’Aula Paolo vi )