Ammonimenti, quaresimali e non, del cardinale Giovanni Battista Montini

La povertà dei preti

 La povertà dei preti  QUO-037
14 febbraio 2023

Sessant’anni fa la lettera pastorale per la quaresima del 1963 dell’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, che quattro mesi dopo sarebbe stato eletto Papa, solleva un certo interesse anche fuori dagli ambienti ecclesiali. Si intitola Il cristiano e il benessere temporale e viene collegata all’intervento in Concilio, poche settimane prima, il 6 dicembre 1962, del cardinale Giacomo Lercaro sulla «Chiesa dei poveri», nonché al radiomessaggio di Giovanni xxiii , l’11 settembre 1962, un mese prima dell’apertura del Concilio, che spiega: «La Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri».

Oggi senz’altro il pensiero corre al desiderio di Papa Francesco, espresso tre giorni dopo la sua elezione: «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!».

All’interno di questo argomento ben noto e studiato, vale la pena riprendere alcune raccomandazioni ai sacerdoti che la lettera pastorale del futuro san Paolo vi mette a fuoco, ancora di grande attualità. Colpisce, nelle parole di un Montini spesso definito cauto e in qualche modo “diplomatico”, la forza dei richiami. Anche l’intervento del cardinale Lercaro viene da lui citato in un discorso ai preti, il 6 febbraio 1963, poco più di due settimane prima della lettera pastorale; l’arcivescovo si trova a Varese, sta parlando loro del Concilio, e con grande schiettezza li esorta: «Tanto più saremo evangelicamente efficienti, quanto meno lo saremo per calcolo economico, finanziario, esteriore, temporale. [...] Bisogna che i nostri cuori siano liberi [...]. Il Signore ha insegnato [...] si è fatto povero, Lui che era ricco. Noi invece spesso facciamo l’opposto. Partiamo poveri in canna e arriviamo a una certa età che abbiamo il nostro bravo gruzzolo, le nostre brave cose, i nostri bravi comodi; non è il disegno di Dio».

È un motivo sul quale Montini riflette da sempre. Recentemente l’Istituto Paolo vi ha pubblicato un testo del 1936 Beati pauperes, nel quale l’allora minutante nella Segreteria di Stato riflette sui preti nell’ottica della beatitudine evangelica: «Bisogna tener sempre presente l’imagine [sic] vera e trasfigurata della Chiesa per non patire scandalo dell’imagine non meno vera ma infedele della Chiesa storica e concreta. Bisogna veder Cristo nel povero. Quanto più Cristo nella sua Chiesa!».

La grande responsabilità del clero in questo senso è presentata con il consueto sguardo penetrante: «Ed è proprio questo atto di fede, che restituisce alla Chiesa, pur composta di gente antipatica, la sua fiammante dignità, quello/a che rende lo spirito libero e obbediente: libero perché non si curva che davanti a Dio, obbediente perché non rifugge di riconoscere Dio nella rappresentanza umana. Libero, perché nessun esempio e nessuno scandalo lo piega a tradire la santità della legge evangelica; obbediente, perché accetta il comandamento del bene anche da chi professandolo lo tradisce».

Fra i tanti riferimenti in questa prospettiva, nei discorsi dell’arcivescovo di Milano ai sacerdoti, quello del discorso del 18 novembre 1959 sul santo Curato d’Ars si distingue per la sua denuncia molto franca: «Diventiamo tante volte affaristi, diventiamo dei cercatori, degli accumulatori di ricchezze, abbiamo trasformato tante volte delle forme di carità in forme di lucro. […] Ma che cosa sarà il giorno in cui un popolo, una storia, una Chiesa ci giudicherà, quando Dio ci giudicherà? Questa era la mia carità: era tutto dono e tu ne hai fatto una fonte di speculazione». L’arcivescovo accenna anche «a tutte le possibili ingiustizie, che si possono commettere in questo». E richiama il grave ammonimento evangelico: «Guai a colui che dovesse mutare questo programma di Cristo in un altro: era povero ed è diventato ricco, facendo il prete». La conclusione è lapidaria: «A un prete mortificato ci si crede, a un prete che fa penitenza ci si crede, a un prete che se la gode, potrebbe predicare il Vangelo, non ci si crede».

L’ampia e articolata lettera pastorale del 24 febbraio 1963, prima di rivolgersi ai sacerdoti ambrosiani, presenta un puntuale sviluppo dei temi sui quali Montini/Paolo vi è particolarmente apprezzato: le riflessioni sui rapporti tra progresso e umanesimo, tra economia e morale, tra beni temporali e beni eterni. «Il distacco, che la scienza e la prassi moderna hanno operato fra l’economia e la morale, e conseguentemente dalla religione, è uno degli errori più gravi del tempo nostro [...]. Il benessere economico tende ad assumere il primo posto nella scala dei valori. Sembra che sia il sommo bene, l’unica salute, il fine che giustifica ogni sforzo e appaga ogni aspirazione. Questa tendenza a sovra-estimare il benessere economico può assumere carattere anti religioso, o almeno a-religioso». Ne deriva l’urgenza di una profonda conversione morale, prima ancora che di riforme sociali, economiche o politiche: «Vi sono capitali enormi, che hanno bisogno di purificarsi del modo discutibile o troppo facile con cui sono stati accumulati; vi sono ricchezze ingenti e stagnanti, che attendono di diventare provvide e benedette aprendosi a scopi caritativi e sociali [...]. Resta sempre vera la Parola del Maestro Divino: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato per giunta”».

In questo quadro, i ministri di Dio sono chiamati in causa «in modo particolare»: «Questa raccomandazione alla semplicità e alla austerità della vita e al distacco dal denaro, dagli agi superflui e da ogni vanitosa esteriorità noi vogliamo fare in modo particolare a noi stessi ecclesiastici: vi siamo più degli altri obbligati per i più stretti vincoli che a Cristo ci uniscono, per l’esempio che ogni altro si attende da noi, per l’efficacia che la nostra linea di povertà conferisce al nostro ministero, e per la sterilità che invece lo colpisce quando appare rivestito da qualche vanità o governato da qualche venalità. Se vogliamo essere autentici ministri di Dio dobbiamo guardarci da ogni avarizia, da ogni affarismo, da ogni mondanità».

«Avete lasciato tutto, e tutto deve essere!» grida, quasi, il cardinale nel Seminario di Venegono, il 27 giugno 1962, ai giovani che ricevono la tonsura; «la chiamata che il Signore vi dà, ricordate che bisogna viverla davvero con cuore staccato, con cuore libero, direi, con cuore spento: bisogna essere dei morti per essere dei vivi». È il «prete-prete» che Montini pone come ideale ai primi sacerdoti ordinati a Milano, il 26 giugno 1955.

Continua la lettera pastorale del 1963, riferendosi anche alle tariffe per le cerimonie religiose in uso a quei tempi: «Anche la ricerca dei mezzi per le opere di bene e di ministero non deve diventare pesante e indiscreta, e non deve apparire prevalente sui fini stessi a cui i mezzi sono destinati, ma deve mostrarsi sempre limpida e disinteressata, quasi una prova della povertà che la promuove e della carità a cui soltanto deve servire».

Ma ciò che conta è intendere il fulcro di queste indicazioni, che non si riducono a «l’osservanza di qualche canone disciplinare, relativo ad un certo stile esteriore della vita ecclesiastica»; ma fanno scoprire un aspetto costituzionale, essenziale, «interiore della Chiesa di Cristo, che è appunto la sua povertà». E la prospettiva si allarga: «Dobbiamo dire: il mistero della povertà nel grande disegno della Redenzione. Tale disegno, noi sappiamo, è un mistero d’amore, che si dà, che si dona, che si prodiga, e che nel manifestarsi al mondo appare spoglio e povero d’ogni bene terreno. [...] La povertà sarà l’abito di Cristo e quello dei suoi, quando lo vogliono imitare, rappresentare, predicare».

Questa è la condizione per essere credibili nel mondo, se non si vuole, dice Montini agli ordinandi del 1959, che il loro diventi presto «un flatus vocis che nessuno raccoglierà».

Paolo vi , nel suo discorso a Bogotá, in Colombia, per l’ordinazione di 200 sacerdoti e diaconi, il 22 agosto 1968 — in quell’estate così critica per lui, per le dure contestazioni alla Humanae vitae — si rivolge a loro con una preghiera a Dio: «O Signore, fa’ che comprendiamo. Dobbiamo imparare ad amare gli uomini così. Poi così a servirli. [...] Saremo ricchi della loro povertà; e saremo poveri in mezzo alle loro ricchezze».

di Giselda Adornato