Hic sunt leones
Il bilancio del recente viaggio di Papa Francesco nel continente

Una “peregrinatio africana” per fare memoria
della missione

Pope Francis, accompaied by Archbishop of Canterbury Justin Welby and Church of Scotland Moderator ...
10 febbraio 2023

È trascorsa quasi una settimana dalla conclusione del pellegrinaggio di Papa Francesco nella Repubblica Democratica del Congo e nel Sud Sudan. Lungi dal voler scadere nella retorica di circostanza, occorre riconoscere che è stato un tempo di grazia da tutti i punti di vista. La nostra rubrica settimanale «Hic sunt leones» non poteva pertanto trascurare quella che è un’esigenza di fondo dettata dall’amore per la missione di cui il vescovo di Roma s’è fatto interprete dall’inizio del suo pontificato. Il riferimento in questo caso è al bilancio di questo viaggio.

La prima costatazione sta nel fatto che ha saputo manifestare con i gesti e le parole una straordinaria empatia nei confronti dei numerosi fedeli — in molti casi folle oceaniche — che gli sono accorsi incontro, prima a Kinshasa e poi a Giuba. La sua è stata una straordinaria predicazione all’insegna della profezia nell’accezione più nobile del termine dal punto di vista biblico. Infatti, come «pellegrino di pace» ha saputo rendere intelligibili i segni dei tempi in linea con il magistero conciliare. La sua predicazione, dalla forte valenza profetica, è stata diretta, esplicita e ha parlato al cuore della gente.

Ma attenzione: la profezia in quanto tale, così com’è sta proferita, è stata declinata dal Papa in una duplice maniera. Anzitutto ha denunciato l’inganno senza se e senza ma, ammonendo le cosiddette potenze attraverso le ripetute assonanze al genere letterario del libro dell’Apocalisse: «Giù le mani dall’Africa!». Riferendosi in particolare all’ex Zaire, ha stigmatizzato che «si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti…Un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca». A questo proposito ha denunciato lo sfruttamento delle commodity (materie prime), fonti energetiche in primis, motivo per cui tanta umanità dolente viene quotidianamente immolata sull’altare dell’egoismo umano. «Riempie di sdegno sapere — ha detto incontrando le vittime della violenza nel settore nord orientale dell’ex Zaire — che l’insicurezza, la violenza e la guerra che tragicamente colpiscono tanta gente sono vergognosamente alimentate non solo da forze esterne, ma anche dall’interno, per trarne interessi e vantaggi…Si tratta di conflitti che costringono milioni di persone a lasciare le proprie case, provocano gravissime violazioni dei diritti umani, disintegrano il tessuto socio-economico, causano ferite difficili da rimarginare. Sono lotte di parte in cui si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione. Che scandalo e che ipocrisia: la gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!».

Ecco che allora, ancora una volta, Papa Bergoglio si è rivelato come di consueto statista di alta levatura sul palcoscenico della storia contemporanea, in grado di guardare oltre la linea dell’orizzonte. Sì, oltre i confini della Vecchia Europa consapevole del fatto che sono proprio le periferie del mondo quelle maggiormente penalizzate dalle ripercussioni dell’attuale congiuntura planetaria. Infatti, il nuovo scenario geopolitico internazionale, a seguito della crisi russo-ucraina, sta decretando una rapida involuzione del multilateralismo dal punto di vista sistemico. Motivo per cui le Afriche — meglio usare il plurale essendo un continente tre volte l’Europa — sono oggi fortemente penalizzate da azioni predatorie d’ogni genere con complicità interne a dir poco deprecabili. Infatti, indipendentemente da quello che sarà l’esito del conflitto che insanguina l’Europa orientale, le divisioni vanno ben al di là della dialettica tra Mosca e Washington e il continente africano appare sempre più parcellizzato in aree d’interesse disseminate all’interno degli stessi Paesi africani in cui si evidenziano a macchia di leopardo presenze straniere d’ogni genere. Eppure, non bisogna scoraggiarsi e l’esercizio della parresia, intesa come coraggio di osare, è un dovere della Chiesa. Questo in sostanza significa che il vaticinio deve essere in grado di tracciate la via del riscatto; ed è quello che Papa Bergoglio ha indicato nei molteplici incontri che hanno scandito le sue giornate africane.

Ad esempio, nel lungo discorso ai vescovi congolesi, incontrati prima di partire per il Sud Sudan, il vescovo di Roma ha raccomandato di camminare al fianco della popolazione che soffre, di sradicare odio, egoismo, violenza, di demolire gli altari consacrati al denaro e alla corruzione e di edificare una pacifica convivenza. Citando l’esempio mirabile di monsignor Christophe Munzihirwa, vescovo martire di Bukavu, a cui ha attribuito ufficialmente il titolo di «Romero del Congo», ha fatto intendere a chiare lettere che la Chiesa ha bisogno «di respirare l’aria pura del Vangelo», ricusando quella inquinata della mondanità e custodendo «il cuore giovane della fede». Molto edificante è stata la dimensione ecumenica di questa peregrinatio petrina all’insegna dell’ecumenismo che ha raggiunto il suo apice nell’incontro di preghiera a Giuba assieme all’arcivescovo di Canterbury e primate anglicano, Justin Welby, e al moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields. In questa occasione Papa Francesco ha lodato e incoraggiato l’impegno del South Sudan Council of Churches (Sscc). Alla preghiera ha naturalmente partecipato anche il reverendo Thomas Tut Puot Mut, presidente del Consiglio ecumenico sudsudanese. Insieme, queste comunità cristiane hanno il compito sacrosanto di difendere, con credenti e non credenti, la comune appartenenza alla famiglia umana, riconoscendosi fratelli perché figli e figlie di un unico Creatore, dunque bisognosi di prendere coscienza che in un mondo globalizzato e interconnesso nessuno si salva da solo.

Durante l’incontro di preghiera, Papa Francesco ha ricordato che «Gesù ci vuole “operatori di pace”» (Mt 5, 9), vuole che la sua Chiesa non sia solo segno e strumento dell’intima unione con Dio, ma anche dell’unità di tutto il genere umano (cfr. Lumen gentium, 1). Cristo, infatti, come ricorda l’Apostolo Paolo, «è la nostra pace» precisamente nel senso del ristabilimento dell’unità: Egli è colui che «fa di due una cosa sola, abbattendo i muri di separazione, l’inimicizia» (cfr. Ef 2, 14) ».

Sul piano squisitamente politico, uno dei primi risultati del viaggio papale è stata la disponibilità del presidente sudsudanese Salva Kiir Mayardit a riprendere i colloqui di pace di Roma con i gruppi di opposizione interni non firmatari (Nsssog). Lo ha dichiarato nella casa presidenziale a Giuba, nel suo discorso di benvenuto a Papa Francesco. Il presidente della Repubblica sud sudanese ha definito la visita del Pontefice «una pietra miliare storica», ricordando peraltro il ritiro spirituale del 2019 in cui Papa Bergoglio baciò, a Santa Marta, i piedi ai leader sudsudanesi implorando la riconciliazione. Nessuno dispone di una sfera di cristallo per prevedere quelli che saranno i futuri sviluppi in questo Paese duramente provato da ogni genere di nefandezze, ma non v’è dubbio che la comunità internazionale non può stare alla finestra a guardare; non foss’altro perché i traffici di armi e munizioni che infestano il Sud Sudan, ma anche il Congo e tanti altri Paesi africani, provengono dall’estero. Proprio quelle stesse armi che hanno e continuano a inferire pene indicibili alla estenuata popolazione civile. È dunque evidente che questo pellegrinaggio africano di Papa Francesco — il terzo nella macroregione subsahariana — è stato un tempo di grazia, nella cristiana certezza che la Chiesa africana deve ricorrere incessantemente nella preghiera all’intercessione dei Santi. Tra questi, in particolare, «San Daniele Comboni, che — ha detto Papa Bergoglio — con i suoi fratelli missionari/e ha compiuto in questa terra (quella sud sudanese n.d.r.) una grande opera di evangelizzazione: egli diceva che il missionario dev’essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo, e che c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa». Tutto questo nella cristiana certezza che l’orazione è la conditio sine qua non della missione.

di Giulio Albanese