Nella Repubblica Centrafricana devastata dalla guerra

Una missione
dove conta la presenza

 Una missione dove conta la presenza  QUO-034
10 febbraio 2023

Missione: questa idea era diventata una fissa per me. Era sempre stato il mio sogno, avevo letto tante vite dei santi, in noviziato, e mi erano sempre piaciuti quelli che da giovani avevano lottato tanto: Francesco, Agostino, Teresa del Bambino Gesù e poi le persone che erano andate in missione da sole, lontano, raccogliendo sfide. Queste storie mi affascinavano.

Mentre ero nella casa generalizia, ero stata inviata in missioni difficili, in particolare in zone di conflitto o di guerra. Quando nel 2015 scoppiò il conflitto nella Repubblica Centrafricana, leggemmo i resoconti di storie agghiaccianti. Fu deciso che io sarei andata nel Paese perché in quella zona avevo avviato due missioni quando ero stata provinciale in Camerun: per questo la Repubblica Centrafricana è sempre stata la mia “figlia prediletta”; tutto quello che riguarda il Centrafrica mi arriva direttamente al cuore. E così iniziammo a preparare le cose. Poi, però, arrivò il mio conflitto interiore, tra l’amore per la missione — andare in un luogo che rappresentasse una sfida — e la realtà, che era tutt’altra cosa. Molte persone mi promisero che avrebbero pregato per me. Una delle suore offrì un’ora di adorazione eucaristica per tutta la durata della mia visita nella Repubblica Centrafricana.

Così lasciai Roma e incontrai due suore; il nostro camion venne scortato da soldati camerunesi fino al confine. È davvero difficile mettere in parole i sentimenti che provavo. Nella mia testa mi chiedevo: «Dove verremo attaccate?». Sedevo in macchina, rigida dalla paura che avevo dentro. Passammo tanto tempo al confine e stava calando la notte. Mi dissi: «Quando verremo attaccate, non sapremo nemmeno dove stiamo morendo». Alle 9 di sera arrivammo al vescovado di Berbérati con una bellissima luna piena. I bambini si accalcavano attorno a me, ballando e cantando la mère est arrivée, “è arrivata la madre”. Le lacrime mi correvano sulle guance mentre alcuni di loro mi tiravano per l’abito e altri volevano che li prendessi in braccio. Ero arrivata con paura, tensione, rigidità, per essere accolta dalla gioia incontenibile dei bambini. In quel momento, l’unica parola che ricordavo in francese era merci. Quando andai a dormire, non riuscivo a mettere in parole quello che mi stava accadendo dentro: ero smarrita, per colpa della gioia dei bambini.

Durante quell’esperienza, in quella settimana, mi alzavo la mattina, pregavo, uscivo per ringraziare i soldati che controllavano e proteggevano noi e la gente durante la notte (per fortuna ero riuscita a recuperare il mio francese). Poi andavo a salutare i bambini e a portare la colazione a loro, che erano tutti ben nutriti. Durante il giorno, invece, incontravo i diversi gruppi e tutti erano contenti, quando mi mettevo a sedere con loro, perfino i musulmani. Un giorno il capo dei musulmani mi disse: «Il vescovo e le suore per noi sono come Allah». In quel momento, ringraziai Dio: non riuscii a fare altro che stare lì, impietrita, e guardare negli occhi quell’uomo. Non ricordavo più una parola di francese.

Mi sono dedicata anche alle suore, ascoltando quelle che erano traumatizzate e sopraffatte dalla situazione terrificante nella quale erano vissute per quasi un anno. Le ho ringraziate per la loro testimonianza di fede e dei valori francescani di presenza e compassione e ho detto che avevo visto come i bambini si attaccavano alle loro vesti, ogni volta che una suora usciva di casa. Ho dedicato del tempo alle donne, ascoltandole: mi raccontavano le loro storie. Quante persone erano morte! Altre avevano visto uccidere davanti ai loro occhi mariti e figli, le case bruciate, ogni tipo di atrocità. Dopo aver ascoltato i racconti, sono andata al villaggio. Quando l’avevo conosciuto, quel villaggio era vivace. Una volta c’era una bellissima moschea: ora, invece, era tutto completamente distrutto. Ho attraversato il villaggio: era come camminare in un cimitero. Continuavo a chiedermi: «Dio, perché?». Tornata in vescovado, l’unica cosa che fui capace di dire loro fu: «Ho visto». Non riuscii a dire altro. E loro mi risposero: «Grazie, madre». La loro gratitudine era più di quanto potessi sopportare: non piango facilmente, ma in quel momento le lacrime mi scendevano a fiumi.

Anche con i bambini ci sono stati tanti momenti di gioia. Sapevano, infatti, che ogni pomeriggio, dopo la scuola, avrebbero ricevuto dei dolciumi. Le suore li mettevano in fila (erano oltre cento) e il mio compito era dare una caramella a ciascuno di essi. Avreste dovuto sentire le loro grida di gioia. Ecco, questa gioia dei bambini era uno dei più forti contrasti. Quello che più mi è rimasto impresso della mia settimana a Berbérati è il contrasto tra la mia paura e la gratitudine e la gioia di persone che avevano appena perso tutto, ma davvero tutto. Il loro apprezzamento non era per le coperte o per le cose che avevo portato, ma per il fatto di essere andata, per la mia presenza.

Quello in Repubblica Centrafricana nel periodo del conflitto è stato un viaggio che ha rafforzato la mia fede, un viaggio in cui ho sperimentato come Dio lavora attraverso la testimonianza al Vangelo delle nostre suore. (Ha collaborato Bernadette Reis)

di Alphonsa Kiven
Suora terziaria di San Francesco


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