Incontro di preghiera nella cattedrale di Kinshasa
La riflessione del Pontefice nella festa della Presentazione del Signore

Non funzionari del sacro
ma testimoni e profeti
di pace

 Non funzionari del sacro  ma testimoni e profeti di pace  QUO-028
03 febbraio 2023

Sacerdozio e vita consacrata non sono un mestiere ma una missione al servizio del popolo


Ieri pomeriggio, giovedì 2 febbraio, Papa Francesco ha presieduto un incontro di preghiera con i sacerdoti, i diaconi, i religiosi — donne e uomini — e i seminaristi della Repubblica Democratica del Congo, svoltosi presso la cattedrale di Kinshasa. Dalla nunziatura apostolica, sua residenza in questa prima parte del viaggio africano, il Pontefice ha raggiunto il tempio dedicato a Notre Dame du Congo nella zona di Lingwala. Alla presenza di circa 5 mila persone, tra quanti hanno trovato posto all’interno e quanti hanno seguito nell’area allestita fuori dalla chiesa, il rito nella festa della Presentazione del Signore, Giornata mondiale della vita consacrata, è stato scandito da canti e dalla lettura in francese del passo del Vangelo di Luca (2, 22-40: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza»), noto come «Nunc dimittis» o Cantico di Simeone. Dopo il saluto rivoltogli dal cardinale arcivescovo Ambongo e le testimonianze di un prete, di una suora e di un allievo del seminario, il vescovo di Roma ha pronunciato il seguente discorso.

Cari fratelli sacerdoti, diaconi
e seminaristi,
care consacrate e consacrati, buonasera e buona festa!

Sono felice di trovarmi con voi proprio oggi, Presentazione del Signore, giorno nel quale preghiamo in modo speciale per la vita consacrata. Tutti, come Simeone, attendiamo la luce del Signore perché illumini le oscurità della nostra vita e, ancor più, tutti desideriamo vivere la stessa esperienza che ha fatto lui nel Tempio di Gerusalemme: tenere tra le braccia Gesù. Tenerlo tra le braccia, in modo da averlo davanti agli occhi e sul cuore. Così, mettendo Gesù al centro, cambia lo sguardo sulla vita e, pur dentro i travagli e le fatiche, ci sentiamo avvolti dalla sua luce, consolati dal suo Spirito, incoraggiati dalla sua Parola, sostenuti dal suo amore.

Dico questo pensando alle parole di benvenuto pronunciate dal Cardinale Ambongo, che ringrazio; ha parlato di «enormi sfide» da affrontare per vivere l’impegno sacerdotale e religioso in questa terra segnata da «condizioni difficili e spesso pericolose», terra di tanta sofferenza. Eppure, come ricordava, c’è anche tanta gioia per il servizio al Vangelo e sono numerose le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Ecco l’abbondanza della grazia di Dio, che opera proprio nella debolezza (cfr. 2 Cor 12, 9) e che vi rende capaci, insieme ai fedeli laici, di generare speranza nelle situazioni spesso dolorose del vostro popolo.

La certezza che ci accompagna anche nelle difficoltà è data dalla fedeltà di Dio. Egli, mediante il profeta Isaia, dice: «Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (43, 19). Ho pensato di proporvi alcune riflessioni proprio a partire da queste parole di Isaia: Dio apre strade nei nostri deserti e noi, ministri ordinati e persone consacrate, siamo chiamati ad essere segno di questa promessa e a realizzarla nella storia del Popolo santo di Dio. Ma, concretamente, a che cosa siamo chiamati? A servire il popolo come testimoni dell’amore di Dio. Isaia ci aiuta a capire come.

Per bocca del profeta, il Signore raggiunge il suo popolo in un momento drammatico, mentre gli Israeliti sono stati deportati a Babilonia e ridotti in schiavitù. Mosso a compassione, Dio vuole consolarli. Questa parte del libro di Isaia, infatti, è conosciuta come “Libro della consolazione”, perché il Signore rivolge al suo popolo parole di speranza e promesse di salvezza. E per prima cosa ricorda il legame d’amore che lo lega al suo popolo: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare» (43, 1-2). Così il Signore si rivela come Dio della compassione e assicura di non lasciarci mai soli, di essere sempre al nostro fianco, rifugio e forza nelle difficoltà. Dio è compassionevole. I tre nomi di Dio, i tre tratti di Dio sono misericordia, compassione e tenerezza. Perché tutti questi fanno la vicinanza di Dio: un Dio vicino, compassionevole e tenero.

Cari sacerdoti e diaconi, consacrate e consacrati, seminaristi: attraverso di voi il Signore anche oggi vuole ungere il suo popolo con l’olio della consolazione e della speranza. E voi siete chiamati a farvi eco di questa promessa di Dio, a ricordare che Egli ci ha plasmati e apparteniamo a Lui, a incoraggiare il cammino della comunità e accompagnarla nella fede incontro a Colui che già cammina accanto a noi. Dio non permette alle acque di sommergerci, né al fuoco di bruciarci. Sentiamoci portatori di questo annuncio in mezzo alle sofferenze della gente. Ecco che cosa significa essere servitori del popolo: preti, suore, missionari che hanno sperimentato la gioia dell’incontro liberante con Gesù e la offrono agli altri. Ricordiamocelo: il sacerdozio e la vita consacrata diventano aridi se li viviamo per “servirci” del popolo invece che per “servirlo”. Non si tratta di un mestiere per guadagnare o avere una posizione sociale, e nemmeno per sistemare la famiglia di origine, ma è la missione di essere segni della presenza di Cristo, del suo amore incondizionato, del perdono con cui vuole riconciliarci, della compassione con cui vuole prendersi cura dei poveri. Noi siamo stati chiamati a offrire la vita per i fratelli e le sorelle, portando loro Gesù, l’unico che risana le ferite del cuore.

Per vivere così la nostra vocazione abbiamo sempre delle sfide da affrontare, delle tentazioni da vincere. Vorrei brevemente soffermarmi su queste tre: la mediocrità spirituale, la comodità mondana, la superficialità.

Anzitutto vincere la mediocrità spirituale. Come? La Presentazione del Signore, che nell’Oriente cristiano è detta “festa dell’incontro”, ci ricorda la priorità della nostra vita: l’incontro con il Signore, specialmente nella preghiera personale, perché la relazione con Lui è il fondamento del nostro operare. Non dimentichiamo che il segreto di tutto è la preghiera, perché il ministero e l’apostolato non sono prima di tutto opera nostra e non dipendono solo dai mezzi umani. E voi mi direte: sì, è vero, ma gli impegni, le urgenze pastorali, le fatiche apostoliche, la stanchezza e così via rischiano di non lasciare tempo ed energie sufficienti alla preghiera. Per questo vorrei condividere alcuni consigli: anzitutto, manteniamo fede a certi ritmi liturgici della preghiera che scandiscono la giornata, dalla Messa al breviario. La celebrazione eucaristica quotidiana è il cuore pulsante della vita sacerdotale e religiosa. La Liturgia delle Ore ci permette di pregare con la Chiesa e con regolarità: non trascuriamola mai! E non tralasciamo neanche la Confessione: abbiamo sempre bisogno di essere perdonati per poter donare misericordia. Un altro consiglio: come sappiamo, non possiamo limitarci alla recita rituale delle preghiere, ma occorre riservare ogni giorno un tempo intenso di preghiera, per stare cuore a cuore con il Signore: un momento prolungato di adorazione, di meditazione della Parola, il santo Rosario; un incontro intimo con Colui che amiamo sopra ogni cosa. Inoltre, quando siamo in piena attività, possiamo anche ricorrere alla preghiera del cuore, a brevi “giaculatorie” — sono un tesoro, le giaculatorie —, parole di lode, di ringraziamento e d’invocazione da ripetere al Signore ovunque ci troviamo. La preghiera ci decentra, ci apre a Dio, ci rimette in piedi perché ci pone nelle sue mani. Essa crea in noi lo spazio per sperimentare la vicinanza di Dio, perché la sua Parola diventi familiare a noi e, attraverso di noi, a quanti incontriamo. Senza preghiera non si va lontano. Infine, per superare la mediocrità spirituale, non stanchiamoci mai di invocare la Madonna — è nostra Madre — e di imparare da lei a contemplare e seguire Gesù.

La seconda sfida è vincere la tentazione della comodità mondana, di una vita comoda in cui sistemare più o meno tutte le cose e andare avanti per inerzia, ricercando il nostro confort e trascinandoci senza entusiasmo. Ma in questo modo si perde il cuore della missione, che è uscire dai territori dell’io per andare verso i fratelli e le sorelle esercitando, in nome di Dio, l’arte della vicinanza. C’è un grande rischio legato alla mondanità, specialmente in un contesto di povertà e sofferenze: quello di approfittare del ruolo che abbiamo per soddisfare i nostri bisogni e le nostre comodità. È triste, molto triste quando ci si ripiega su sé stessi diventando freddi burocrati dello spirito. Allora, anziché di servire il Vangelo, ci preoccupiamo di gestire le finanze e di portare avanti qualche affare vantaggioso per noi. Fratelli e sorelle, è scandaloso quando ciò avviene nella vita di un prete o di un religioso, che invece dovrebbero essere modelli di sobrietà e di libertà interiore. Che bello invece mantenersi limpidi nelle intenzioni e affrancati da compromessi col denaro, abbracciando con gioia la povertà evangelica e lavorando accanto ai poveri! E che bello essere luminosi nel vivere il celibato come segno di disponibilità completa al Regno di Dio! Non accada invece che in noi si trovino, ben piantati, quei vizi che vorremmo sradicare negli altri e nella società. Per favore, vigiliamo sulla comodità mondana.

Infine, la terza sfida è vincere la tentazione della superficialità. Se il Popolo di Dio attende di essere raggiunto e consolato dalla Parola del Signore, c’è bisogno di preti e religiosi preparati, formati, appassionati al Vangelo. Ci è stato messo un dono tra le mani e, da parte nostra, sarebbe presuntuoso pensare di poter vivere la missione a cui Dio ci ha chiamati senza lavorare ogni giorno su noi stessi e senza formarci in modo adeguato, nella vita spirituale come nella preparazione teologica. La gente non ha bisogno di funzionari del sacro o di laureati distaccati dal popolo. Siamo tenuti a entrare nel cuore del mistero cristiano, ad approfondirne la dottrina, a studiare e meditare la Parola di Dio; e al tempo stesso a restare aperti alle inquietudini del nostro tempo, alle domande sempre più complesse della nostra epoca, per poter comprendere la vita e le esigenze delle persone, per capire come prenderle per mano e accompagnarle. Perciò, la formazione del clero non è un optional. Lo dico ai seminaristi, ma vale per tutti: la formazione è un cammino da portare avanti sempre e per tutta la vita. Si chiama formazione permanente: formazione sempre, per tutta la vita.

Queste sfide di cui vi ho parlato sono da affrontare se vogliamo servire il popolo come testimoni dell’amore di Dio, perché il servizio è efficace solo se passa attraverso la testimonianza. Non dimenticare questa parola: la testimonianza. Infatti, dopo aver pronunciato parole di consolazione, il Signore dice per mezzo di Isaia: «Chi può annunciare questo tra loro per farci udire le cose passate? Voi siete i miei testimoni» (43, 9.10). Testimoni. Per essere buoni sacerdoti, diaconi, consacrate e consacrati non bastano le parole e le intenzioni: a parlare, prima di tutto, è la vita stessa, la propria vita. Cari fratelli e sorelle, guardando voi rendo grazie a Dio, perché siete segni della presenza di Gesù che passa lungo le strade di questo Paese e tocca la vita della gente, le ferite della loro carne. Ma c’è ancora bisogno di giovani che dicano “sì” al Signore, di altri sacerdoti e religiosi che con la loro vita lascino trasparire la sua bellezza.

Nelle vostre testimonianze mi avete ricordato com’è difficile vivere la missione in una terra ricca di tante bellezze naturali e risorse, ma ferita dallo sfruttamento, dalla corruzione, dalla violenza e dall’ingiustizia. Però avete anche parlato della parabola del buon samaritano: è Gesù che passa lungo le nostre strade e, specialmente attraverso la sua Chiesa, si ferma e si prende cura delle ferite degli oppressi. Carissimi, il ministero a cui siete chiamati è proprio questo: offrire vicinanza e consolazione, come una luce sempre accesa in mezzo a tanta oscurità. Impariamo dal Signore, che è vicino, sempre. E per essere fratelli e sorelle di tutti, siatelo anzitutto tra di voi: testimoni di fraternità, mai in guerra; testimoni di pace, imparando a superare anche gli aspetti particolari delle culture e delle provenienze etniche, perché, come affermò Benedetto xvi rivolgendosi ai sacerdoti africani, «la vostra testimonianza di vita pacifica, al di là delle frontiere tribali e razziali, può toccare i cuori» (Esort. ap. Africae munus, 108).

Un proverbio dice: «Il vento non spezza ciò che sa piegarsi». La storia di molti popoli di questo Continente è stata purtroppo piegata e piagata da ferite e violenze, e perciò, se c’è un desiderio che sale dal cuore, è quello di non doverlo fare più, di non doversi più sottomettere alla prepotenza del più forte, di non dover più abbassare il capo sotto il giogo dell’ingiustizia. Ma possiamo accogliere le parole del proverbio principalmente in senso positivo: c’è un piegarsi che non è sinonimo di debolezza, di essere codardo, ma di fortezza; allora significa essere flessibili, superando le rigidità; significa coltivare un’umanità docile, che non si chiude nell’astio e nel rancore; significa essere disponibili a lasciarsi cambiare, senza arroccarsi sulle proprie idee e posizioni. Se ci pieghiamo davanti a Dio, con umiltà, Egli ci fa diventare come Lui, operatori di misericordia. Quando restiamo docili nelle mani di Dio, Egli ci plasma e fa di noi delle persone riconciliate, che sanno aprirsi e dialogare, accogliere e perdonare, immettere fiumi di pace nelle aride steppe della violenza. E, così, quando soffiano impetuosi i venti dei conflitti e delle divisioni, queste persone non possono essere spezzate, perché sono ricolme dell’amore di Dio. Siate anche voi così: docili al Dio della misericordia, mai spezzati dai venti delle divisioni.

Sorelle e fratelli, vi ringrazio di cuore per ciò che siete e ciò che fate, vi ringrazio per la vostra testimonianza alla Chiesa e al mondo. Non scoraggiatevi, c’è bisogno di voi! Siete preziosi, importanti: ve lo dico a nome della Chiesa intera. Vi auguro di essere sempre canali della consolazione del Signore e testimoni gioiosi del Vangelo, profezia di pace nelle spirali della violenza, discepoli dell’Amore pronti a curare le ferite dei poveri e dei sofferenti. Grazie tante, sorelle e fratelli, grazie ancora per il vostro servizio e per il vostro zelo pastorale. Vi benedico e vi porto nel cuore. E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me! Grazie.


Il saluto  del cardinale Ambongo

Fioritura di vocazioni


«Vivere l’impegno sacerdotale e religioso nel Congo di oggi comporta enormi sfide», ma «l’indefettibile attaccamento al Signore, la fedeltà ai valori evangelici e la gioia di servire e accompagnare il popolo di Dio nella sua ricerca di una maggiore dignità» sono «le garanzie di una vita sacerdotale e religiosa autentica e vera, gioiosa e appagante». Con queste parole il cardinale arcivescovo di Kinshasa, Fridolin Ambongo Besungu, si è rivolto al Pontefice in occasione dell’incontro di preghiera del 2 febbraio. 

A sacerdoti, consacrati e seminaristi il porporato ha manifestato la propria riconoscenza  «per l’opera di evangelizzazione che svolgono nel  Paese, in condizioni spesso difficili e talvolta pericolose»: essi, ha assicurato, sono confortati  dalla presenza incoraggiante di Papa Francesco che «ci dà motivi di speranza e di proiettarci nel futuro con maggiore determinazione e dedizione». 

Di fronte a tutto ciò, ha concluso il cardinale cappuccino, «benedico il Signore per la fioritura delle vocazioni sacerdotali e religiose nel nostro Paese».