Quel perdono e quella pace
che nascono dalle ferite

 Quel perdono e quella pace che nascono dalle ferite  QUO-026
01 febbraio 2023

Se nel primo discorso del 40° viaggio apostolico, in Africa, il Papa aveva lanciato il grido contro il nuovo, subdolo, colonialismo che sfrutta economicamente la terra e la popolazione della Repubblica Democratica del Congo, nel secondo testo da lui pronunciato, l’omelia nell’aeroporto di N’dolo di fronte a più di un milione di fedeli, il grido si è trasformato in un’esclamazione di gioia, di incoraggiamento e di speranza.

Non c’è baratro da cui non si possa risalire.

Non c’è nulla di irrecuperabile se si fonda la speranza non in noi ma in Cristo.

Perché si possono fare tante analisi sui problemi sociali ed economici di una nazione, li può fare e dire anche il Papa, ma è Gesù che infine, «conosce le tue ferite, conosce le ferite del tuo Paese, del tuo popolo, della tua terra!». Così ha esclamato il Papa chiedendo ai tanti fedeli di rivolgersi sempre a Gesù, a Lui che è il vero “principe della pace”.

Una pace che Gesù consegna ai discepoli solo dopo la resurrezione, perché — dice il Papa — «prima il Signore doveva sconfiggere i nostri nemici, il peccato e la morte, e riconciliare il mondo al Padre; doveva provare la nostra solitudine e il nostro abbandono, i nostri inferi, abbracciare e colmare le distanze che ci separavano dalla vita e dalla speranza. Ora, azzerate le distanze tra Cielo e terra, tra Dio e uomo, la pace di Gesù viene data ai discepoli».

Quella scena pasquale avviene in ogni celebrazione eucaristica e avviene anche oggi, in terra congolese, una terra piena dei “nostri inferi” già elencati nel primo discorso alle autorità. Come nei cuori feriti dei discepoli, invasi dai sensi di colpa, dalle frustrazioni, dalla tristezza, dalla paura, così anche in questa terra benedetta dalla natura ma non dalla storia, può, anzi deve essere annunciata una parola di pace come fa Gesù che «proclama la pace mentre nel cuore dei discepoli ci sono le macerie, annuncia la vita mentre loro sentono dentro la morte. In altre parole, la pace di Gesù arriva nel momento in cui tutto per loro sembrava finito, nel momento più inatteso e insperato, quando non c’erano spiragli di pace. Così fa il Signore: ci stupisce, ci tende la mano quando stiamo per sprofondare, ci rialza quando tocchiamo il fondo. Fratelli, sorelle, con Gesù il male non ha mai la meglio, non ha mai l’ultima parola».

Ripresentando quella scena della domenica di Pasqua, il Papa parla al Congo di oggi, alle sue macerie, il luogo dove paradossalmente può nascere la pace, indicando tre sorgenti, tre fonti per alimentare questa pace insperata: il perdono, la comunità e la missione. Anche queste sorgenti si trovano in un campo per lo più invaso di macerie e ferite ma proprio da qui possono rinascere, scaturire di nuovo e con esse la speranza. Anzi, dice il Papa soffermandosi sul gesto misericordioso di Gesù che mostra le proprie ferite, «il perdono nasce dalle ferite. Nasce quando le ferite subite non lasciano cicatrici d’odio, ma diventano il luogo in cui fare posto agli altri e accoglierne le debolezze. Allora le fragilità diventano opportunità e il perdono diventa la via della pace».

Ecco allora che si può esclamare pieni di gioia, gettando via la tristezza, la rassegnazione e il fatalismo e «dire al mondo questo annuncio insperato e profetico di pace». E gioia (Esengo nella lingua locale) infatti è stata la prima parola dell’omelia di Francesco: «La gioia di vedervi e incontrarvi è grande» ha esclamato il Papa, e citando implicitamente il Vangelo ha continuato dicendo: «Ho tanto desiderato questo momento, grazie per essere qui!». Una festa a lungo attesa, questa è la sensazione palpabile che si avverte in questi primi momenti del viaggio del Papa in Congo, accompagnato dall’entusiasmo della folla accalcata lungo tutti i tragitti stradali e assiepata nell’aeroporto di N’dolo. Una festa che rivela sullo sfondo una luce invincibile, proprio perché scaturisce dal buio delle macerie di una terra e di un popolo ferito. 

di Andrea Monda