Con lo sguardo del buon samaritano Alla mensa dei volontari di “Famiglia Ginepro”

Un pasto per alleviare la fame del cuore

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04 febbraio 2023

Ponteggi: i locali che ospitano la mensa della parrocchia romana di Santa Maria Madre della Provvidenza sono circondati da ponteggi, colorati dall’arancione e dal verde dei teli da lavoro. È una giusta metafora: le persone che si rivolgono alla mensa cercano proprio questo, ossia un ponteggio, un puntello, un sostegno che le aiuti a restare in piedi quando la vita tira un montante improvviso che ti manda al tappeto.

A chi bussa alla porta per chiedere un pasto piace moltissimo essere chiamato per nome dai volontari, perché essere riconosciuti vuol dire essere considerati, essere trattati con dignità. Gli ospiti si mettono in fila, ma per loro l’attesa non è un peso, anzi: è un modo per sentirsi parte di qualcosa. Qualcuno è straniero, qualcun altro è italiano come l’uomo che arriva di corsa: «Ho un po’ da fare, ma poi torno — dice, con la o di “torno” pronunciata aperta, segno tipico di un accento campano —. Però aspettatemi prima di chiudere, eh? Ché il pasto me lo prendo dopo».

Chi è più fortunato, tra loro, opera nel settore delle pulizie, spostandosi da un lavoro all’altro con i mezzi pubblici. Viaggi complicati che, in una città come Roma, possono richiedere ore. Ogni giorno è una conquista. «Io non vengo qui alla mensa solo per mangiare — racconta un altro —, ma anche per stare in compagnia, per parlare con qualcuno».

La sua non è fame di cibo, ma fame d’amore. La stessa fame che ha un suo amico dai capelli bianchi, che ci racconta la sua vita come un fiume in piena. Nato in Albania, è scappato dal suo Paese dopo l’avvento del regime comunista. Oggi vive di lavori saltuari, ma in tasca custodisce un sogno: diventare pittore.

Arriva anche un altro ospite: la sua casa è un mucchio di cartoni vicino San Pietro. Ma tutti i giorni, a piedi, raggiunge il quartiere Monteverde per un pasto caldo, perché ormai ha fatto amicizia con gli altri ospiti e la bellezza dell’incontro va ben oltre la distanza e la fatica di percorrere un lungo tragitto. «Fa freddo, eh!» esclama un’altra voce arrochita dalle basse temperature. Chi parla è un uomo con una sciarpa giallo-rossa attorno al collo. Nessuno sa se è romanista davvero, ma tutti i volontari sanno che gli piace il tè caldo e glielo offrono, insieme a un sorriso e a un biscotto.

Per ultime, arrivano le mamme con i bambini. Alcune di loro sono quelle che le indagini demoscopiche chiamano “i nuovi poveri”, ossia donne sulle quali la vita ha infierito in modo imprevisto. Non parlano con nessuno, prendono il pasto e vanno via subito. Sembra che si vergognino del fatto di non riuscire a sfamare la loro famiglia, ma è una vergogna onorevole, perché profuma di attenzione e amore.

E poi ci sono loro, i volontari: fanno parte dell’associazione “Famiglia Ginepro”, fondata nove anni fa dall’attore e regista Christian Ginepro (è lui il simpatico agente di polizia Domenico D’Intino della serie tv Rocco Schiavone). «Il nostro obiettivo è aiutare piccole realtà — ci spiega —, creando un senso di comunità: quando ho scritto su Facebook che cercavo volontari per il servizio mensa, ho ricevuto 80 adesioni in pochissimo tempo. E mi sono ricordato di quando, da bambino, dicevo ai miei amici: “Vieni a giocare a pallone? Manchi solo tu!”. Però lo dicevo a tutti».

Il volontariato è innanzitutto condivisione e per illustrare il concetto, Ginepro usa una metafora inusuale, ma efficace: «È un po’ il concetto della bara — dice sorridendo —: quando i portatori se l’appoggiano sulle spalle, devono essere consapevoli che il peso e la responsabilità vanno condivise». E come gli amici d’infanzia, anche «i volontari bisogna travolgerli affinché si sentano “a casa” in ogni luogo in cui prestano il loro servizio». In questo modo, infatti, riusciranno a superare eventuali paure o pregiudizi nei confronti di un mondo difficile, come è quello della povertà e del disagio sociale.

In nove anni di attività, “Famiglia Ginepro” ha raccolto e donato a tante iniziative solidali 300.000 euro. «Ma non siamo supereroi — sottolinea l’attore —. Vogliamo solo che chi è povero non si senta invisibile». Anche perché, in Italia, l’indigenza viene descritta solo in due modi: «O è quella criminale in stile Gomorra, o è quella folcloristica alla Poveri, ma belli — conclude Ginepro —. Invece, esiste una miseria vera, drammatica, come quella narrata nei film del regista britannico Ken Loach».

Ed è a questo tipo di povertà, dunque, che vanno in aiuto i volontari “capitanati” da Christian: c’è Valentina, con i lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo e un sorriso pronto per tutti: «Fare il volontario significa capire le persone dallo sguardo e andare loro incontro, senza che debbano chiedere nulla», ci spiega. C’è Daniela, con il suo occhio “clinico” da architetto, che riesce a rendere immediatamente accogliente ogni ambiente: «Mi sono lasciata coinvolgere dall’entusiasmo di un’amica e quindi oggi sono qui», racconta. Perché la carità, come la fede, lavora per attrazione, non per imposizione. C’è Francesca, medico di professione, ma anche ottima cuoca: ha trascorso la domenica ai fornelli e ha preparato muffin per tutti. «Io sono una donna fortunata — afferma —, ma intorno a me vedo tanto degrado e tanta solitudine. Allora ho deciso di fare qualcosa per contrastare tutto questo».

Alla porta della mensa, intanto, bussa Mohammed, su una spalla una cassetta colma di verdure, proveniente da un negozio di zona. «Ciao principessa!», esclama gioioso alla volontaria che ritira la merce. Poi arriva Luca con due buste enormi di pane fresco donate dal negozio di alimentari del quartiere e che sprigionano una fragranza meravigliosa. Oltre alle pagnotte e alle rosette, ci sono anche dei biscotti speciali: un regalo dei “Mastri biscottai”, l’impresa sociale che dà lavoro a ragazzi con disabilità. Perché la carità crea circuiti virtuosi. Poco più in là, Fiorinda ci parla della «bellezza della condivisione», mentre la giovane Noemi, capelli rosso fuoco, racconta: «I miei compagni di classe mi prendono un po’ in giro perché faccio volontariato. Ma per me è importante stare qui». Oggi, insieme a lei, c’è Stefania, lo sguardo colmo di tenerezza, che dice: «È la prima volta che faccio volontariato ed è stata una bellissima scoperta».

Luciano e Barbara, invece, volontari lo sono da diverso tempo e quella fiamma che si è accesa in loro poi non si è più spenta: lui ha operato in Sud America, lei ha prestato servizio in un orfanotrofio. «Lo scambio reciproco con le persone che aiuti è la cosa più bella — dicono —, ma bisogna essere preparati, avere una certa sensibilità», perché non si può mai sapere il dolore che un povero, un escluso, un emarginato porta nel cuore. Ed è un dolore che non si può e non si deve giudicare.

Nel frattempo, in cucina si lavora febbrilmente e in meno di due ore si sfornano quaranta porzioni di mezze maniche al ragù di carne e verdure ripassate in padella. Per ogni ospite ci sono anche un panino, una mela e un dolcetto. La fila di persone alla porta si snoda in modo ordinato e alle 19 la distribuzione del cibo si conclude. È passato anche l’ospite dall’accento campano a ritirare il suo pasto: la promessa di aspettarlo è stata mantenuta.

Mentre ci si dà da fare per pulire e sistemare i locali, arriva il parroco, don Alberto Orlando: «È andata bene?», chiede con un sorriso. Un coro unanime ed entusiasta risponde di sì. Ci fermiamo a parlare un po’ con lui: «Nel Vangelo, la carità indica l’amore gratuito, quello disinteressato verso qualsiasi cosa, tranne che nei confronti del bene dell’altro — afferma —. È l’amore concentrato sul bene dell’altro, anche sapendo mettere da parte sé stesso, fino a che l’altro abbia ricevuto ciò a cui ha diritto». Don Orlando ci racconta poi della sua idea di non dare il numeretto agli ospiti che attendono in fila, bensì di chiedere loro il nome: «D’altronde, se noi prenotiamo un tavolo al ristorante, lasciamo il nostro nome, mica un numero. E allora perché per i nostri ospiti dovrebbe essere diverso?». In fondo, aggiunge, «la carità insegna a mettersi nei panni dell’altro che ha bisogno, ad ascoltarlo, a dirgli: “Sono al tuo fianco e ti aiuto a trovare la tua strada”».

di Isabella Piro