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Monica Puto accompagna i contadini colombiani pacifisti

La scorta alla giustizia

 La scorta  alla giustizia  DCM-002
04 febbraio 2023

Giustizia, un concetto ben più ampio di “legge”. Sia che si risalga all’etimologia latina “iustitia”, sia a quella greca “dikaiosýne”, in questa parola è contenuto un riferimento al trascendente che si fa garante dei diritti degli esseri umani. E’ la “giustizia” di cui parla più volte Gesù.

È la “giustizia” per cui si battono senz’armi gli abitanti della Comunità di San José de Apartadó in Colombia e le colombe che dal 2009 li accompagnano. Monica Puto, 54 anni, originaria di Pordenone, è una di loro. E’ una delle pioniere di Operazione Colomba, il corpo civile non violento della Comunità Giovanni xxiii attivo dalla Palestina all’Ucraina di cui, tra l’altro, è membro. A differenza degli altri volontari e, soprattutto, volontarie che scelgono di farsi “scorta” dei perseguitati per la giustizia e possono essere non credenti o credenti di altre religioni, Monica Puto ha trovato in Operazione Colomba la propria strada per seguire il Vangelo. La propria missione.

«In realtà è la loro missione, delle donne e degli uomini della Comunità di pace. Noi volontari ci limitiamo a stare al loro fianco, ed è un onore e un orgoglio farlo. Sono loro i nostri maestri di nonviolenza e di giustizia». La “scuola” è un villaggio di poche centinaia di case circondato dalle colline verde smeraldo dell’Urabá, nel nord-ovest del Paese. Là, poche centinaia di contadini resistono da quasi ventisei anni alla guerra più lunga d’Occidente, rifiutando di prendervi parte. Nel cuore della regione bananiera, si sono combattuti per decenni i miliziani pseudo-marxisti del quinto fronte delle Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc), i paramilitari d’ultradestra delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc) e la xvii Brigata dell’esercito, il cui comandante, il generale Rito Alejo del Río, è stato condannato a 25 anni per l’esecuzione di un sindacalista. Tutti e tre mettevano gli agricoltori locali di fronte a un bivio: collaborare o resistere. La gente di San José ha optato per un’inedita terza via: dichiararsi neutrali e restare, costruendo un sistema di vita solidale e nonviolento.

I residenti governano insieme la Comunità attraverso l’assemblea mentre gli otto esponenti del consiglio, eletti a turno, si occupano della gestione. Ciascuno ha il proprio campo che amministra in autonomia mentre della porzione di terra comune si occupano insieme. E il giovedì è dedicato ai lavori di manutenzione collettiva delle strade, la scuola, il centro sociale. I risultati si notano a colpo d’occhio: le casette, mura di legno e tetto di lamiera, sono umili ma curate, come le piante e gli animali. In una di queste abitano le colombe. «Quel che facciamo non è un lavoro. E’ una condivisione concreta della realtà degli abitanti. Cerchiamo di vivere come loro, di spostarci come loro, a dorso di mulo o a piedi».

Monica, in quanto membro della Papa Giovanni xxiii , ha scelto di vivere senza salario, con un solo rimborso spese. Nei periodi in Italia, inoltre, collabora alla raccolta fondi per il progetto che si finanzia con le donazioni di privati, associazioni, realtà laiche ed ecclesiali. «In maggioranza si tratta di piccoli contributi. Sono soprattutto i poveri ad aiutarci. I grandi donatori contribuiscono più volentieri quando vedono un esito tangibile: una scuola, un ospedale, una chiesa. Noi, però, non costruiamo nulla. Ci limitiamo a camminare insieme. A scegliere volontariamente una situazione che gli altri sono costretti a subire. Non possiamo cambiarla. Ma possiamo fare un punto di forza di un sistema ingiusto per il quale le nostre esistenze di europee valgono di più di quelle dei contadini colombiani. Impiegare quelle vite per fare loro da scudo. Forse, proprio per questa caratteristica di “protezione” spesso, come ora, tutti i volontari sono donne. Non siamo operatori umanitari ma fratelli e sorelle di un pezzo di umanità che è disposta a dare la vita per la giustizia».

Per la gente della Comunità la morte violenta è una compagnia costante. «Non dicono se ci ammazzeranno ma quando», sottolinea Monica. I gruppi armati hanno fatto pagare un caro prezzo ai ribelli nonviolenti che rifiutano di portare armi, fare la spia, coltivare coca o anche solo di vendere loro del cibo. Delle trecento famiglie fondatrici ne restano 35. Sulle pietre bianche che formano il mausoleo circolare del Parco della Memoria sono scritti 325 nomi. Uno per ogni abitante assassinato. Lo stillicidio prosegue nonostante la pace firmata dal governo e dalle Farc il 24 novembre 2016. Il vuoto, lasciato dalla guerriglia smobilitata, è stato subito riempito da nuove formazioni criminali, eredi dei vecchi paramilitari. «Il 29 dicembre 2017, incappucciati con pistole e machete hanno fatto irruzione nella Comunità e hanno cercato di uccidere il rappresentante, Germán Graciano Posso, e un esponente del consiglio, Roviro López. Quest’ultimo avrebbe potuto fuggire ma non ha voluto lasciare solo Germán. Sarebbero morti entrambi se i bambini non si fossero accorti e avessero dato l’allarme. Tutta la Comunità allora è accorsa e ha disarmato gli aggressori. E’ stato commovente vederli mobilitarsi come un solo corpo per proteggersi a vicenda. Mi è venuta in mente la frase di Giovanni: non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici».

Non è facile per le colombe vegliare su persone in costante pericolo. «E’ un cammino molto profondo, spiritualmente intenso. Ti pone molte domande, ti scuote e ti chiede di ripetere quotidianamente il tuo sì. La cosa più difficile da sopportare è la frustrazione: non vediamo grandi risultati». Per questo, oltre alla formazione iniziale, la Comunità offre una formazione costante, nel rispetto delle differenti sensibilità. «In una società ossessionata dalla performatività, la Comunità mi ha insegnato che la missione non ha una fine. E’ un cammino in cui procedi senza sapere dove e come arriverai. La sola cosa importante è lasciare tracce che indichino l’orizzonte corretto. Che stai andando dalla parte giusta. Allora ogni passo diventa giustizia».

di Lucia Capuzzi
Giornalista di «Avvenire»