Intervista a Zakia Seddiki, vedova di Luca Attanasio il diplomatico ucciso lo scorso anno in un attentato

Storia di un ambasciatore
di pace

 Storia di un ambasciatore di pace   QUO-023
28 gennaio 2023

Era il 22 febbraio 2021 quando l’ambasciatore italiano Luca Attanasio perdeva la vita in un tragico agguato sulla strada tra Goma e Rutshuru, nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Aveva 42 anni ed era uno dei più giovani ambasciatori italiani nel mondo. Attanasio non è stato solo un uomo di pace, ma anche un uomo di fede, la cui testimonianza è iniziata nell’oratorio di Limbiate ed è proseguita negli incontri di Taizé. Una persona perbene, un sognatore che guardava il mondo come se fosse un bel giardino, umile e sensibile: così lo descrive la moglie Zakia Seddiki, fondatrice e presidente di “Mama Sofia”, istituzione che mira a migliorare la vita di donne e bambini in difficoltà nella Repubblica Democratica del Congo con progetti nel campo della salute, dell’istruzione e dell’accesso all’acqua. È diventata anche una Fondazione in Italia — racconta in questa intervista a «L’Osservatore Romano» — il giorno dell’anniversario del barbaro attentato, come messaggio di rinascita per difendere il valore della pace in memoria di Luca uomo e diplomatico. La scomparsa di Attanasio, come quella del carabiniere della scorta Vittorio Iacovacci e dell’autista congolese Mustapha Milambo, ci ricorda che c’è un’Italia che lavora in Africa e per l’Africa, lontano dai riflettori della cronaca e spesso dimenticata dalla politica e dall’informazione.

Sono trascorsi quasi due anni da quando Luca è stato ucciso. Che ricordo le rimane della Repubblica Democratica del Congo?

Malgrado tutto, è stata per noi una bella esperienza, sia personale che professionale. Vivendo il Paese, abbiamo avuto l’occasione di creare un rapporto con tante persone e di condividere con loro momenti felici, oltre che dolorosi. Ovviamente quello che è successo ha cambiato le nostre vite, ma il popolo congolese, che non ha alcuna colpa, rimarrà sempre nel mio cuore e mi impegnerò ancora di più per stare vicina ai più deboli. Come avrebbe voluto Luca.

Che cosa ha significato per Luca essere ambasciatore in un Paese con una storia così travagliata? Come ha vissuto questo servizio?

Questo servizio lo stava vivendo come un’occasione di crescita umana e professionale, anche perché per lui era la prima volta da ambasciatore e sentiva quindi una grande responsabilità. Era pieno di entusiasmo e di motivazione. E devo dire che ad aiutarlo tanto è stato anche l’aver vissuto quella realtà stando in famiglia. Era una sfida, perché nel Paese l’ambasciatore mancava da un paio d’anni e quindi Luca doveva lavorare tanto soprattutto per ridare certezze agli italiani che vivevano lì. È arrivato con uno spirito positivo, pur conoscendo le complessità del Paese dove dilaga la sofferenza.

Nella biografia ufficiale Luca Attanasio, storia di un ambasciatore di pace del giornalista Fabio Marchese Ragona, con cui lei ha collaborato, afferma che suo marito «era l’ambasciatore di cui tutti avevano il numero di telefono». Qual era la sua migliore qualità?

Sapeva ascoltare bene le persone e aveva la forza anche di unirle. Luca riusciva sempre a trovare il modo per mettere d’accordo le persone, faceva una sintesi e raggiungeva sempre buoni traguardi. E poi era allegro e, pur trovandosi in situazioni difficili, riusciva ad affrontarle con positività, svolgendo il suo delicato compito rimanendo sempre se stesso. Usava bene il suo lavoro di diplomatico per essere utile agli altri.

Quanto ha influito nella formazione di Luca la frequentazione dell’oratorio, della parrocchia e il suo vivere la fede?

Secondo me hanno influito tanto, perché quegli insegnamenti lo hanno accompagnato anche da grande e li ha messi in pratica. Luca è sempre rimasto in contatto col suo parroco e con le persone che frequentavano con lui l’oratorio e la chiesa di Limbiate. Nella Repubblica Democratica del Congo, poi, si è ritrovato per lavoro a parlare e ascoltare spesso i missionari italiani sparsi per il Paese e che, con pochi mezzi, fanno grandi cose. Anche in questo caso li ascoltava con grande attenzione e cercava di capire quali fossero i loro bisogni.

Che Paese troverà Papa Francesco?

Troverà un popolo a cui serve tanto il suo messaggio di speranza e di pace. Troverà tanto entusiasmo e grande attesa da parte di tutti. Troverà sicuramente occhi di persone che soffrono, occhi che non hanno più lacrime per quello che stanno vivendo. Troverà un popolo che non andrà lasciato da solo, che ha bisogno di questa mano sicura che lo accompagni verso il futuro, perché vive una guerra tra le guerre dimenticate. E sono sicura che pregando insieme a questa gente, il Papa darà loro speranza e magari cambierà anche i cuori di tanti per tornare a vivere nella pace. Buona missione!

di Silvina Pérez