Colloquio con il vescovo vicegerente Baldassarre Reina

Nient’altro che evangelizzare

 Nient’altro che evangelizzare  QUO-017
21 gennaio 2023

Il vescovo Baldassare Reina (“don Baldo” per chi lo conosce da tempo), 52 anni, e 27 di presbiterato, è da qualche giorno il nuovo vicegerente della diocesi di Roma. Fino a pochi mesi fa era il rettore del seminario maggiore di Agrigento, dentro la cui provincia è nato, si è formato e ha esercitato il suo ministero pastorale. Il primo a sorprendersi della sua nomina è lui stesso: «Ero appena arrivato a Roma per dare un contributo al Dicastero per il Clero. Il cardinale Lazzaro You Heung-sik, che ne è il prefetto, ha una particolare sensibilità al tema della formazione e dei seminari, così mi aveva chiesto di integrare la mia esperienza. Poi è arrivata inaspettata la nomina episcopale e ora, ancor più inaspettata, quella a vicegerente della diocesi del Papa».

Sorpreso sì, ma non frastornato. Reina sembra avere le idee abbastanza chiare su cosa lo aspetti. Non con la presunzione di conoscere già la città e la diocesi, ma con la certezza confidente di un metodo di lavoro già sperimentato. «Ascolto, ascolto, e poi ancora ascolto. Ce lo ripetiamo spesso, ma abbiamo ancora molto da imparare sull’ascolto. Saper ascoltare soprattutto fuori dei nostri orizzonti abituali; noi preti abbiamo ancora tanto da apprendere dal di fuori dei nostri ambiti. Dai laici, dalle famiglie, dai non più praticanti, e anche dai non credenti. Per me, che non ho un passato di prete romano, la predisposizione all’ascolto della città più che una vocazione è necessità. La seconda cosa è quella di saper vedere il bene, tanto, che pur c’è intorno a noi. Guardi, io mi sono subito immerso nella realtà del settore che mi è stato pastoralmente affidato; ogni giorno giro per parrocchie, comunità, circoli. Incontro tante persone, vicine ma anche a noi lontane. E sto scoprendo tante bellissime esperienze. C’è tanto impegno di preti e laici. Storie molto belle che nessuno racconta. Perché è proprio vero che il bene è come l’erba che cresce senza far rumore. Chi fa il bene con vero spirito evangelico non ha necessità di farsi notare. Eppure sono storie, che come buone testimonianze del Vangelo, andrebbero raccontate. Purtroppo spesso prevale la logica del bicchiere mezzo vuoto piuttosto che mezzo pieno, e ci arrovelliamo sui nostri umani difetti, sulle nostre fragilità, scordando il bello che vive nella Chiesa».

Questo per la Chiesa; e invece la città? Quali sono le prime percezioni sulla città?

Vede, io ho studiato in questa città, alle soglie del 2000, e ne ho un ben altro ricordo. Ricordo di allora i fermenti della preparazione del grande Giubileo dell’anno Duemila, una certa vivacità culturale, una buona tensione sociale, protesa allo sviluppo e al bene di tutti. Tanto tra i cittadini che nelle istituzioni. Oggi appare un’altra realtà: quella di una città in stallo. Che sembra aver smarrito la spinta propulsiva alla crescita e al bene comune. Sicuramente viviamo i postumi della grande pandemia; ma non c’è solo quello. Uno stallo che ha peraltro prodotto una grave crescita delle diseguaglianze sociali e della povertà. Una situazione questa che preoccupa e impegna tanto i nostri parroci. Che legittimamente non vogliono essere solo dispensatori di aiuti materiali, ma si interrogano su come coniugare carità ed evangelizzazione. Io penso che questa situazione, lungi dal pessimismo e dalla rassegnazione, costituisca piuttosto una grande occasione perché la Chiesa di Roma recuperi quel protagonismo profetico e sociale che l’ha distinta nel passato. Il disagio, la povertà, il male, sono le situazioni in cui la Chiesa è chiamata ad evangelizzare, ed è proprio in esse che la chiesa ritrova se stessa, la sua dimensione ideale. Come ai tempi del noto Convegno sui mali di Roma del 1974. Se questo ancora non è avvenuto è perché ci siamo lasciati spesso intorpidire dalla routine, dalla mancanza di protagonismo e di creatività. Non vedo per esempio all’orizzonte quei laici ricchi di tensione ideale e sociale e politica che resero possibile il convegno del 1974. Dobbiamo essere molto chiari: non si è protagonisti, nella Chiesa come nella società, solo attraverso i social media.

Come si pone in questo quadro la costituzione apostolica che Papa Francesco ha donato alla Chiesa di Roma sulla sua organizzazione?

Lei ha giustamente usato il verbo “donare”. Si tratta veramente di un dono. Lo si capisce bene se si guarda non agli aspetti tecnici ma al ricco proemio. In quel testo iniziale c’è tutta l’idea di pastoralità di Papa Francesco, innanzitutto la sinodalità, a tutti i livelli, come prassi permanente e caratterizzante la vita della Chiesa. E soprattutto quell’invito ricorrente ad interrogarsi non sull’efficienza dei ruoli e delle strutture ma sulla missione. La risposta è sempre l’evangelizzazione. La missionarietà della Chiesa deve essere al centro di ogni nostro pensiero ed azione. Ognuno di noi, laico, laica o presbitero non può esimersi dal domandarsi sempre — davanti ai cambiamenti sempre più radicali e rapidi che propone il mondo — cosa significhi oggi essere cristiani. E la risposta non può che essere “annunciare a tutti la buona notizia del Cristo risorto che ha vinto la morte e il peccato. Inoltre, proprio nel cuore del tempo dedicato al sinodo il Papa chiede alla sua diocesi di essere esemplare nell’esercizio del saper lavorare insieme con processi decisionali e di responsabilità in grado di coinvolgere il popolo di Dio attraverso gli organismi di partecipazione e i vari responsabili del Vicariato. È un cambiamento di mentalità che affonda le radici nell’ecclesiologia del Vaticano ii e riaffermata nell’Evangelii Gaudium.

di Roberto Cetera