L’Italia e la generatività
Il Rapporto Italia Generativa 2022

Un Paese in “surplace”
In equilibrio ma fermo

 Un Paese in “surplace”   QUO-011
14 gennaio 2023

Il Rapporto Italia Generativa 2022 è stato presentato giovedì scorso nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, in Senato.  Sono intervenuti il sociologo Mauro Magatti, che ha curato la supervisione scientifica del Rapporto, Patrizia Cappelletti, ricercatrice del Centre for the Anthropology of Religion and Generative Studies (Arc) dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Pierluigi Stefanini, presidente della Fondazione Unipolis, che ha contribuito al progetto, promosso da Common e da Generatività.it. Il Rapporto, realizzato da Paolo Pezzana, Marco Fregoni, Riccardo Della Valle, Marco Libbi, Pietro Rotini, Gianluca Truscello e dalla stessa Cappelletti, è stato discusso in occasione della presentazione da Gian Carlo Blanciardo, presidente dell’Istat, da Tiziano Treu, presidente del Cnel e da Alessandro Canelli, presidente dell’Istituto per la Finanza e l’Economia locale e moderato dal vicedirettore del Corriere della Sera, Antonio Polito.


Il surplace nel gergo ciclistico è la particolare tecnica di rimanere in equilibrio sul mezzo rimanendo fermi sul posto. Consiste in sostanza nel dare dei piccoli colpi di pedale in avanti e all’indietro. Non è particolarmente difficile; il fatto è che utile solo se si rimane fermi. Proprio come l’Italia, almeno secondo l’immagine disegnata dal Rapporto Italia Generativa 2022, presentato giovedì a Roma. Lo studio ha già nel titolo (“Italia in surplace. Dalla dispersione intergenerazionale all’ecosistema generativo”) il riferimento a questa metafora sportiva che più di altre, secondo gli autori, è efficace nel dare l’idea di un Paese che tutto sommato sta in piedi, concentrato nell’impresa di non cadere, alla quale riserva tutta le sue energie, ma che si è quasi rassegnato a non andare avanti.

Eppure le potenzialità ci sarebbero. L’Italia, come spesso si racconta, è un paese caotico ma vitale. Quando lo si osserva a fini di studio non è raro imbattersi in realtà paradossali, impensabili. Per esempio (ce lo ricorda il Rapporto) pochi sospetterebbero che l’Italia supera la media europea nell’efficienza del riciclo dei rifiuti. E che è inoltre protagonista nell’evoluzione dell’economia circolare, con nuove filiere produttive, del riciclo, del riuso, anche grazie a un sistema produttivo che si lega strettamente al territorio. Senza contare la più nota eccellenza del “terzo settore”, ormai pilastro imprescindibile per il sistema di welfare nazionale.

Insieme a queste positività tuttavia, il Rapporto Italia Generativa racconta di un Paese che negli ultimi 30 anni ha partecipato solo marginalmente alla forte espansione globale e nel quale, nonostante i mal di pancia ben strumentalizzati da una certa retorica politica, oltre che del tema dell’immigrazione occorrerebbe parlare ancora di quello dell’emigrazione, giacché sono tanti, troppi, i giovani che hanno deciso di partire nella convinzione di avere maggiori possibilità di vita, di successo e di crescita, altrove. «Un sentimento di sfiducia e di rinuncia accomuna le generazioni, anche le più giovani — si legge nel Rapporto —. È come se l’Italia non si sentisse ancora capace d’investire nel suo futuro».

I dati presenti nello studio, ricavati e aggregati da quelli messi a disposizione, tra gli altri, da Eurostat e Istat, vengono qui letti con una lente particolare, quella della “generatività”, al fine di evidenziare come non sia ormai più possibile prevedere politiche ispirate da obiettivi di medio periodo e orientate, sì, alla crescita ma non allo sviluppo, che è una categoria più ampia e non necessariamente coincidente, a breve termine, con la prima. La capacità di affrontare con successo la transizione generazionale, il passaggio da una visione settoriale dei problemi a una più complessa, per arrivare infine a sviluppare azioni concrete, realmente trasformative e capaci di valorizzare il contributo di tutti, sono le direttrici lungo cui si muove, nell’intenzione dei ricercatori, la stesura del Rapporto.

Concretezza, si diceva. A fronte di alcuni punti di crisi nodali, analizzati a partire da dati statistici, lo studio indica esempi di buone politiche messe in atto in diversi Paesi europei. Sono 5, nel dettaglio, i nodi che bloccano l’Italia. Anzitutto, il preoccupante «sbilanciamento sul presente», testimoniato da alcuni indizi, quali il ritardo accumulato nel sistema educativo-formativo, i 1500 miliardi di euro (il 30 per cento della ricchezza mobiliare privata) attualmente fermi nei depositi bancari, quindi non investiti, la dismissione al momento del passaggio generazionale di aziende anche molto redditizie. Questo sbilanciamento, rilevano gli autori della ricerca, dipende da un livello di fiducia nelle istituzioni che rimane tra i più bassi a livello europeo, dal fatto che l’assunzione del rischio di impresa non solo non sia premiata ma venga persino tendenzialmente penalizzata, dalla sottovalutazione della centralità di conoscenza e ricerca e dalla scarsa familiarità dei cittadini con gli strumenti necessari a partecipare alle iniziative imprenditoriali. Per tutti questi motivi occorre porsi l’obiettivo ambizioso, afferma il Rapporto, di costruire un modello di sviluppo più desiderabile e che prenda forma attorno ai concetti di sostenibilità e digitalizzazione.

“Prima le persone”, dunque: è lo slogan che accompagna l’analisi del secondo nodo che impedisce al Paese di essere realmente generativo. «L’Italia sembra essersi dimenticata — si legge — che prima, durante e dopo il processo di crescita ci sono le persone»: le statistiche restituiscono infatti l’immagine di un Paese in pieno inverno demografico, fenomeno che, ed è un dato sorprendente, comincia a riguardare anche gli stessi immigrati, veloci nell’adeguarsi ai modelli e agli stili di vita locali e a ridurre il numero dei figli. Sulle persone si investe poco ed è in Italia una mancanza ormai antica. Parliamo di un Paese dove una percentuale elevata dei suoi (pochi) bambini vive in condizioni di grave povertà e dove le risorse destinate all’educazione e alla formazione sono troppo poche (“la società italiana rischia di accartocciarsi su se stessa”, scrivono gli autori).

È un tema legato a stretto giro anche a quello della tutela della maternità e della disuguaglianza retributiva e di opportunità di carriera ancora esistente fra uomini e donne, tanto che secondo il Rapporto «è urgente ripensare al femminile l’intera agenda socioeconomica». La maternità in Italia è ancora penalizzante e penalizzata: in questo senso tra i suggerimenti proposti c’è quello di congedi parentali disegnati in senso più paritario. Si cita poi il tema degli immigrati, che, anche secondo il Rapporto, costituiscono e continueranno a costituire una risorsa importante a livello lavorativo, a patto però di «avere il coraggio di illuminare l’altra faccia della luna: esiste e va smantellato il sottobosco dell’economia sommersa e precaria fondata sullo sfruttamento estrattivo del capitale umano».

Uno degli elementi più desolanti del panorama offerto dal Rapporto è poi quello della “disuguaglianza demotivante”. Ormai da molti anni la mobilità sociale ascendente si è fermata. In Italia il numero delle persone in povertà ha toccato negli ultimi mesi la cifra di circa 6 milioni. In percentuale vi sono rappresentati più minori di 18 anni che ultra sessantacinquenni. Ma la povertà, avverte il Rapporto, risulta essere multidimensionale: affonda le sue radici nelle fragilità personale e famigliari e in un persistente disuguaglianza che continua a tramandarsi di generazione in generazione. La scuola e più in generale il sistema di welfare «non riescono a intaccare la struttura delle disuguaglianze», con un evidente effetto demotivante.

A fronte di un terzo settore, come si accennava, imprescindibile anche in questo ambito, secondo gli autori del Rapporto occorre fare chiarezza sulla qualità e quantità di risorse che arrivano sui territori e alle singole persone, nel quadro di una visione integrata, e occorre prediligere interventi volti a reinserire il prima possibile il beneficiario nella vita attiva, non a determinare nuove dipendenze.

Il sistema socioeconomico italiano del resto continua a presentare peculiarità poco valorizzate, a partire da un universo di piccole e piccolissime imprese che fanno riferimento a un numero relativamente ampio di medie imprese industriali: è il sistema che dà vita a quello che nel mondo si definisce “Made in Italy”. Per alcuni si tratta di una anomalia da correggere mentre altri, esaltandola formalmente, non si preoccupano tuttavia delle condizioni necessarie alla sua sopravvivenza.

Secondo il Rapporto occorre perciò un investimento forte nel sistema formativo, «dall’infanzia all’università, dal long life learning alla ricerca», è indispensabile ricostruire la fiducia tra mondo delle imprese e Stato, attraverso la semplificazione della burocrazia, così come è vitale investire sulle infrastrutture, anche perché continuano a rimanere forti disparità tra nord e sud. Soprattutto nel meridione, oltretutto, permangono gli effetti del dissennato sfruttamento e dell’incuria del territorio, che si aggiungono al noto dissesto idrogeologico e al paradossale effetto di un rischio siccità aumentato di 20 volte in poco tempo in un paese pure ricco di acqua. Elementi questi che rendono evidente come sia ineludibile affrontare il tema della sostenibilità e quindi del recupero di valore del “bene comune” di fronte alla sfiducia nelle istituzioni, cui si faceva cenno in precedenza. La ricostruzione di «un’idea di bene comune — sostengono gli autori del Rapporto — è possibile solo attorno al tema della sostenibilità, dentro una logica generativa».

Del resto oggi i giovani sono attratti da stili di vita più sostenibili, «in grado di garantire stabilità organizzativa ed emotiva». È questa la leva «in grado di attivare nuove energie psichiche ed economiche, sociali ed istituzionali. Un orizzonte verso cui un Paese in surplace può decidere di lanciarsi con tutta la creatività, l’intelligenza e la pluralità di cui è capace».

di Marco Bellizi