Il magistero

 Il magistero  QUO-004
05 gennaio 2023

Sabato 31 dicembre 2022

Recuperare
la gentilezza
come virtù
personale
e civica

Quando Dio si è fatto uomo, non è venuto nel mondo piombando dall’alto dei cieli; è nato da Maria. Non è nato in una donna ma da una donna. È diverso: vuol dire che Dio ha voluto prendere la carne da lei.

Non l’ha usata, ma ha chiesto il suo “sì”, il suo consenso. E con lei ha cominciato il cammino della gestazione di un’umanità libera dal peccato e piena di grazia e di verità, di amore e di fedeltà.

Un’umanità bella, buona e vera, a immagine e somiglianza di Dio, eppure intessuta con la nostra carne offerta da Maria; mai senza di lei; sempre nella gratuità.

La maternità divina di Maria — maternità verginale, verginità feconda — è la via che rivela l’estremo rispetto di Dio.

Lui che ci ha creato senza di noi non vuole salvarci senza di noi (s. Agostino).

Questo suo modo di venire a salvarci è la via sulla quale invita noi a seguirlo.

È un modo di relazionarsi da cui derivano le molteplici virtù umane di una convivenza buona e dignitosa. Una di queste è la gentilezza, come stile di vita che favorisce la fraternità e l’amicizia sociale.

Questa sera vorrei riproporre la gentilezza anche come virtù civica, pensando in particolare alla nostra diocesi di Roma.

La gentilezza è un fattore importante della cultura del dialogo.

Il dialogo è indispensabile per vivere in pace, da fratelli, che non sempre vanno d’accordo — è normale — ma che si parlano, si ascoltano e cercano di comprendersi e venirsi incontro.

Pensiamo a cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone che hanno tenuto unite famiglie e comunità.

Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta a vivere meglio. E la gentilezza fa parte del dialogo. Non è solo questione di “galateo”, di “etichetta”, di forme.

Si tratta invece di una virtù da recuperare ogni giorno, per umanizzare le società.

I danni dell’individualismo consumista sono sotto gli occhi di tutti.

Il più grave è che le persone che ci circondano vengono percepite come ostacoli alle nostre tranquillità e comodità.

Gli altri ci “scomodano”, disturbano, tolgono tempo e risorse per fare quel che piace.

La società individualistica e consumistica tende a essere aggressiva, perché gli altri sono concorrenti.

Eppure, anche nelle situazioni più difficili, ci sono persone che dimostrano come sia ancora possibile scegliere la gentilezza e diventano stelle in mezzo all’oscurità.

San Paolo, nella Lettera ai Galati parla dei frutti dello Spirito Santo, e tra questi menziona la parola greca chrestotes.

È questo che possiamo intendere per “gentilezza”: un atteggiamento benevolo, che sostiene e conforta gli altri evitando ogni asprezza e durezza.

Un modo di trattare il prossimo facendo attenzione a non ferire con parole o gesti.

Cercando di alleggerire i pesi altrui, incoraggiare, confortare, consolare; senza umiliare, mortificare o disprezzare.

La gentilezza è un antidoto contro alcune patologie delle nostre società: la crudeltà, che purtroppo si può insinuare come un veleno nel cuore e intossicare le relazioni; l’ansietà e la frenesia distratta che ci fanno concentrare su noi stessi e ci chiudono.

Queste “malattie” rendono aggressivi, incapaci di chiedere “permesso”, oppure “scusa”, o di dire semplicemente “grazie”. Le tre parole così umane della convivenza con [cui] si va avanti nella pace, nell’amicizia umana.

Quando incontriamo una persona gentile, rimaniamo stupiti, perché purtroppo non è più molto comune.

Però, grazie a Dio, ci sono ancora persone gentili, che sanno mettere da parte le preoccupazioni per prestare attenzione agli altri, regalare un sorriso, una parola di incoraggiamento, ascoltare chi ha bisogno di confidarsi e sfogarsi.

Recuperare la gentilezza aiuta a migliorare la vita nelle famiglie, nelle comunità.

Guardando al nuovo anno della città di Roma, vorrei augurare a noi che la abitiamo di crescere in questa virtù.

Se diventa uno stile di vita, può creare una convivenza sana, umanizzare i rapporti sciogliendo aggressività e indifferenza.

Non diamo per scontato il mistero della maternità divina!

Lasciamoci stupire dalla scelta di Dio, che avrebbe potuto apparire in mille modi mostrando la sua potenza, e invece ha voluto essere concepito nel grembo di Maria, formarsi per nove mesi come ogni bambino e nascere da donna.

Cerchiamo di imparare il “metodo” di Dio, il suo rispetto, la sua “gentilezza”, perché nella maternità divina della Vergine c’è la via per un mondo più umano.

(Primi vespri della solennità di Maria Santissima Madre di Dio e Te Deum di ringraziamento
per la conclusione dell’anno civile)

Domenica 1 gennaio 2023

C’è bisogno
di speranza

Santa Madre di Dio! È l’acclamazione del Popolo santo di Dio, che risuonava per le strade di Efeso nell’anno 431, quando i Padri del Concilio proclamarono Maria Madre di Dio.

Si tratta di una notizia bellissima: Dio ha una Madre e si è legato per sempre alla nostra umanità, come un figlio alla mamma, e la nostra umanità è la sua.

È una verità consolante, tanto che l’ultimo Concilio, qui celebrato, ha affermato: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito... a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (Gaudium et spes, 22).

Dio nascendo da Maria ha mostrato il suo amore concreto per la nostra umanità, abbracciandola pienamente.

Non ci ama a parole, ma coi fatti; non “dall’alto”, da lontano, ma “da vicino”, proprio dal di dentro della nostra carne, perché in Maria il Verbo si è fatto carne, perché nel petto di Cristo continua a battere un cuore di carne!

Santa Madre di Dio! Su questo titolo sono stati scritti libri e trattati. Ma tali parole sono soprattutto entrate nella preghiera più familiare e domestica: l’Ave Maria.

La seconda parte si apre infatti così: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi».

Questa invocazione ha permesso a Dio di avvicinarsi, per mezzo di Maria, alle nostre vite e alla nostra storia.

Recitata nelle lingue più diverse, sui grani del rosario e nei momenti del bisogno, davanti a un’immagine sacra o per la strada, a quest’invocazione la Madre di Dio sempre risponde.

Ci dà speranza. E noi, all’inizio di quest’anno, abbiamo bisogno di speranza come la terra della pioggia.

L’anno che si apre nel segno della Madre ci dice che la chiave della speranza è Maria.

Preghiamola in modo speciale per i figli che soffrono e non hanno più la forza di pregare.

Per tanti fratelli e sorelle colpiti dalla guerra in tante parti del mondo, che vivono questi giorni di festa al buio e al freddo, nella miseria e nella paura, immersi nella violenza e nell’indifferenza!

Per quanti non hanno pace acclamiamo la donna che ha portato al mondo il Principe della pace.

Ma come fare ad accoglierla? Lasciamoci consigliare dai pastori di Betlemme... persone povere e forse anche rudi, e quella notte stavano lavorando. Loro, non i sapienti e i potenti, hanno riconosciuto per primi il Dio venuto povero.

I pastori sono andati e hanno visto. Due gesti: andare e vedere.

Andare

I pastori «andarono, senza indugio». Non sono rimasti fermi. Era notte ed erano stanchi: avrebbero potuto attendere l’alba.

Invece di fronte alle cose importanti bisogna reagire prontamente, non rimandare; perché «la grazia dello Spirito non comporta lentezze» (s. Ambrogio).

Per accogliere Dio e la sua pace non si può stare fermi, comodi. Bisogna alzarsi, cogliere le occasioni di grazia, rischiare.

All’inizio dell’anno, anziché stare a sperare che le cose cambino, farebbe bene chiederci: “Io, quest’anno, dove voglio andare? Verso chi vado a fare del bene?”.

Tanti aspettano il bene solo tu puoi dare, il tuo servizio.

Di fronte alla pigrizia che anestetizza e all’indifferenza che paralizza, di fronte al rischio di limitarci a rimanere seduti davanti a uno schermo con le mani su una tastiera, i pastori ci provocano ad andare, a smuoverci per quel che succede nel mondo, a sporcarci le mani, a rinunciare ad abitudini e comodità per aprirci alle novità di Dio, che si trovano nell’umiltà del servizio, nel coraggio di prendersi cura.

Vedere

Arrivati i pastori «trovarono Maria e Giuseppe, e il bambino nella mangiatoia». [E] solo «dopo averlo visto», si misero a riferire di Gesù agli altri e a glorificare Dio.

La svolta è stata averlo visto. È importante abbracciare con lo sguardo, restare davanti al Bambino in braccio alla Madre.

Senza dire, senza chiedere, senza fare nulla. Guardare in silenzio, adorare, accogliere con gli occhi la tenerezza consolante di Dio fatto uomo, e della Madre.

All’inizio dell’anno, tra le tante novità che si vorrebbero sperimentare, dedichiamo tempo ad aprire gli occhi e a tenerli aperti di fronte a Dio e agli altri.

Abbiamo il coraggio di sentire lo stupore dell’incontro, cosa ben differente dalla seduzione del mondo, che tranquillizza.

Lo stupore di Dio, l’incontro, dà pace; l’altro solo anestetizza e dà tranquillità.

Quante volte, presi dalla fretta, non abbiamo il tempo di sostare un minuto in compagnia del Signore per ascoltare la sua Parola, pregare, adorare, lodare.

La stessa cosa avviene nei riguardi degli altri: non c’è tempo per ascoltare la moglie, il marito, per parlare con i figli, per chiedere loro come vanno dentro, non solo come vanno gli studi e la salute.

Quanto bene fa mettersi in ascolto degli anziani, del nonno e della nonna, per riscoprire le radici.

Chiediamoci se siamo capaci di vedere chi ci vive accanto, chi abita il nostro palazzo, chi incontriamo nelle strade.

Il Signore è venuto a noi e la Santa Madre di Dio ce lo pone davanti agli occhi.

Riscopriamo nello slancio di andare e nello stupore di vedere i segreti per rendere quest’anno davvero nuovo, e vincere la stanchezza del rimanere o la falsa pace della seduzione.

Invito tutti a guardare la Madonna. Acclamiamola tre volte: Santa Madre di Dio!, come faceva il popolo di Efeso.

(Omelia nella messa della solennità di Maria Santissima Madre di Dio, lvi Giornata mondiale della pace)

Imparare
a prendersi
cura

Mentre contempliamo Maria nella grotta dove è nato Gesù, possiamo domandarci: con quale linguaggio ci parla? Cosa possiamo imparare da lei?

Possiamo dire: “Madonna, insegnaci cosa dobbiamo fare in questo anno”.

In realtà, Maria non parla. Ella accoglie con stupore il mistero e, soprattutto, si preoccupa del Bambino adagiato nella mangiatoia.

Questo verbo “adagiare” significa deporre con cura, e ci dice che il linguaggio di Maria è quello della maternità.

Mentre gli angeli fanno festa, i pastori accorrono e lodano Dio, Maria non parla, non intrattiene gli ospiti spiegando ciò che è successo, non ruba la scena... al contrario, mette al centro il Bambino.

Una poetessa ha scritto che Maria «sapeva essere anche solennemente muta [...], perché non voleva perdere di vista il suo Dio» (A. Merini).

Il linguaggio tipico della maternità è la tenerezza del prendersi cura.

Dopo aver portato in grembo per nove mesi il dono di un misterioso prodigio, le mamme continuano a mettere al centro di tutte le attenzioni i loro bambini: li nutrono, li stringono tra le braccia, li depongono con dolcezza nella culla.

La Madre ci ricorda che, se vogliamo che il nuovo anno sia buono, se vogliamo ricostruire speranza, occorre abbandonare i gesti e le scelte ispirati all’egoismo e imparare il linguaggio dell’amore.

L’impegno è prenderci cura della nostra vita... del nostro tempo, della nostra anima; del creato e dell’ambiente; e del prossimo, di coloro che il Signore ci ha messo accanto, come pure dei fratelli e delle sorelle che sono nel bisogno e interpellano la nostra attenzione e compassione.

Celebrando la Giornata Mondiale della Pace, riprendiamo consapevolezza della responsabilità che ci è affidata per costruire il futuro.

Davanti alle crisi personali e sociali, davanti alla tragedia della guerra, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione.

Imploriamo Maria, perché in questa epoca inquinata da diffidenza e indifferenza, ci renda capaci di compassione; di commuoversi e fermarsi davanti all’altro.

(Angelus in piazza San Pietro)

Mercoledì 4

La fragilità
è la vera
ricchezza
dell’umanità

Con questa catechesi concludiamo il ciclo dedicato al discernimento, e lo facciamo completando il discorso sugli aiuti che possono e devono sostenerlo.

Uno è l’accompagnamento spirituale, importante per la conoscenza di sé, condizione indispensabile per il discernimento.

Guardarsi allo specchio non sempre aiuta, perché uno può alterare l’immagine. Invece, l’aiuto di un altro aiuta tanto perché l’altro ti dice la verità.

Pensando a una parabola evangelica, la grazia di Dio possiamo paragonarla al buon seme e la natura al terreno.

È importante farsi conoscere, senza timore di condividere gli aspetti più fragili, dove ci scopriamo sensibili, deboli o timorosi di essere giudicati.

Manifestarsi a una persona che ci accompagni nel cammino della vita. Non che decida per noi.

La fragilità è la nostra vera ricchezza... che dobbiamo imparare a rispettare e ad accogliere, perché ci rende capaci di tenerezza, di misericordia e di amore.

Guai a quelle persone che non si sentono fragili: sono dure, dittatoriali.

Invece, le persone che con umiltà riconoscono le proprie fragilità sono più comprensive con gli altri.

La fragilità ci rende umani. Non a caso, la prima delle tre tentazioni di Gesù nel deserto — quella legata alla fame — cerca di rubarci la fragilità, presentandocela come un male di cui sbarazzarsi, un impedimento a essere come Dio.

E invece è il nostro tesoro più prezioso.

Guardiamo il crocifisso: Dio che è sceso proprio alla fragilità.

Guardiamo il presepio che arriva in una fragilità umana grande.

L’accompagnamento spirituale, se è docile allo Spirito Santo, aiuta a smascherare equivoci anche nella considerazione di noi stessi e nella relazione con il Signore.

Il Vangelo presenta diversi esempi di colloqui chiarificatori e liberanti fatti da Gesù. Pensiamo a quelli con la Samaritana, con Zaccheo, con la donna peccatrice, con Nicodemo e con i discepoli di Emmaus.

Vulnerabilità e
inadeguatezza

Le persone che hanno un incontro vero con Gesù non hanno timore di aprirgli il cuore, di presentare la propria vulnerabilità, inadeguatezza.

Raccontare di fronte a un altro ciò che abbiamo vissuto o che stiamo cercando aiuta a fare chiarezza in noi stessi.

Quante volte, in momenti bui, ci vengono pensieri così: “Ho sbagliato tutto, non valgo niente, nessuno mi capisce, non ce la farò mai, sono destinato al fallimento”.

Pensieri falsi e velenosi, che il confronto con l’altro aiuta a smascherare.

Scopriamo con sorpresa modi differenti di vedere le cose, segnali di bene.

Noi possiamo condividere le nostre fragilità con quello che ci accompagna nella vita spirituale, sia laico [o] sacerdote.

Colui o colei che accompagna non fa il lavoro al posto della persona accompagnata, ma cammina al suo fianco, la incoraggia a leggere ciò che si muove nel suo cuore, il luogo dove il Signore parla.

L’accompagnatore spirituale, che noi chiamiamo direttore spirituale — non mi piace questo temine, preferisco accompagnatore spirituale — è quello che ... ti attira l’attenzione su cose che forse passano; ti aiuta a capire meglio i segni dei tempi, la voce del Signore, la voce del tentatore, la voce delle difficoltà.

C’è un detto della saggezza africana — loro hanno quella mistica della tribù — che dice: “Se vuoi arrivare in fretta, vai da solo; se vuoi arrivare sicuro, vai con gli altri”, vai accompagnato, con il tuo popolo.

Nella vita spirituale è meglio farsi accompagnare... è indispensabile essere inseriti in una comunità in cammino.

Non siamo soli, siamo gente di un popolo, di una nazione, di una città, di una Chiesa, di una parrocchia, di questo gruppo... una comunità in cammino.

Non si va al Signore da soli. Come nel racconto evangelico del paralitico, spesso siamo sostenuti e guariti grazie alla fede di qualcun altro.

Altre volte siamo noi ad assumerci tale impegno a favore di un fratello o sorella.

Senza esperienza di figliolanza e fratellanza l’accompagnamento può dare adito ad attese irreali, a equivoci, a forme di dipendenza che lasciano allo stato infantile.

La Vergine Maria è maestra di discernimento: parla poco, ascolta molto e custodisce nel cuore. I tre atteggiamenti della Madonna: parlare poco, ascoltare tanto e custodire nel cuore. E le poche volte in cui parla lascia il segno.

Nel Vangelo c’è una frase pronunciata da Maria che è una consegna per i cristiani di tutti i tempi: “Fate quello che vi dirà”.

Una volta ho sentito una vecchietta buona, pia, non aveva studiato teologia, molto semplice. M’ha detto: “Lei sa qual è il gesto che sempre fa la Madonna?”. Non so: ti coccola, ti chiama... “No, è questo” [indica con l’indice]. Io non capivo, e chiedo cosa vuol dire. E la vecchietta: “Segnala Gesù”. È bello: la Madonna non prende niente per sé.

Discernimento Un dono
che va chiesto

Fate quello che Gesù vi dice: così è la Madonna. Maria sa che il Signore parla al cuore di ciascuno, e chiede di tradurre questa parola in azioni e scelte.

Il discernimento è un dono di Dio, che va sempre chiesto, senza mai presumere di essere esperti e autosufficienti.

La voce del Signore si può sempre riconoscere: pacifica, incoraggia e rassicura.

Il Vangelo ce lo ricorda continuamente: «Non temere», che bella quella parola dell’angelo a Maria dopo la risurrezione di Gesù.

«Non temere!», ripete a noi il Signore oggi: se ci fidiamo, giocheremo bene la partita della vita, e potremo aiutare altri.

(Udienza generale in piazza San Pietro)