Canti dalle periferie Il diritto di parlare e di essere ascoltati

 Canti dalle periferie Il diritto di parlare e di essere ascoltati  ODS-006
30 dicembre 2022

Per chi vive sulla propria pelle l’esperienza della povertà, il futuro fa paura. Sono tante le incertezze, le preoccupazioni. Ma anche di fronte alla “voragine” che si apre sotto i piedi o alla “nuvola nera” che si addensa all’orizzonte, la speranza non viene mai meno. È difficile immaginare un mondo senza più guerre, povertà, ingiustizie, ma è possibile — e questi “canti dalle periferie” lo dimostrano — pensare di poter fare qualcosa perché il sogno diventi realtà.

Una voragine
senza fondo

Il futuro di un povero è limitato nel tempo. Quando ci penso, è come se sotto i miei stessi piedi si aprisse una voragine, tanto profonda che dall’alto non vedi il fondo. Il futuro è limitato nel tempo perché, si sa, con l’avanzare dell’età la salute comincia a traballare. Quando sei povero per davvero, devi solo sperare di stare in salute, perché, senza soldi, di curarsi bene non se ne parla proprio.

Comunque, sono stato sempre un ottimista di natura. Bene o male, sono uscito da situazioni molto difficili, tanto da non sapere che fine avrei fatto. Però, come diceva Sergio, un mio caro amico, c’è sempre la Divina Provvidenza.

La mia vita si divide in due parti: un prima e un dopo, un po’ come dire prima e dopo Cristo.

C’è stata una vita bella e senza problemi apparenti — visto come è andata a finire — e una dopo, dove veramente ho dovuto fare appello a tutta la fantasia e a tutto il coraggio che avevo. Mi sono inventato di tutto pur di continuare a vivere, a sopravvivere. Anche riuscire a farsi una risata sembrava una cosa assurda. Gli altri mi dicevano: «Ma che c’avrai da ridere? Guarda come siamo ridotti».

Ma io non volevo arrendermi alla povertà estrema. Mi dicevo sempre che non volevo fare assolutamente la stessa fine di tanti, o quasi tutti, per i quali l’unico scopo della giornata è quello di bere fino ad ubriacarsi per non pensare.

Prendevo sempre le cose con ironia. Cercavo di vivere nel modo più normale possibile, senza stare lì a pensare alla povertà.

C’è un detto popolare che dice: «Gente allegra Dio l’aiuta». Per me è diventato un mantra che mi ha aiutato moltissimo.

La fantasia per me è una cosa essenziale: mi è sempre piaciuto leggere qualsiasi cosa, proprio perché mi estraneo dalla realtà e mi immergo nelle storie che leggo, immaginando com’era la vita del tempo.

Mi piacciono i libri storici. Essendo nato e cresciuto a Roma, la storia mi ha sempre fatto viaggiare nel tempo e nella vita di uomini e donne vissuti tanti anni fa.

Per me la situazione più brutta che un povero affronta è la solitudine. Questa è la cosa che i poveri soffrono di più. È come se si formasse un muro tra te e gli altri: più sei solo e più sei povero. È la situazione più difficile da affrontare: il povero si chiude in se stesso e pare che non ci sia più niente da dire e niente da fare. Così ti ritrovi sempre più solo con nessuna voglia di ridere e scherzare.

Oltre le stelle

Pensare il futuro è sognare un mondo perfetto. Qualcosa che ancora non c’è.

Sappiamo, come esseri umani, che il nostro dovere è quello di lasciare un mondo nel quale si possa vivere. Lo sentiamo come un obbligo per la nostra generazione e perciò dobbiamo vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo.

Non sappiamo che succederà nel futuro. Ma la nostra priorità è vivere e insegnare agli altri che solo la forza dell’amore tra gli uomini e il rispetto per il creato permetteranno alla nostra razza umana di continuare a vivere, in armonia con l’universo... oltre le stelle e altrove.

Una nuvola nera
dietro le sbarre

Il futuro sta dentro ognuno di noi. Quasi sempre fa paura pensarlo, ma inevitabilmente lo devi affrontare. È così nella vita ordinaria, ma per quanti sono privati della libertà il futuro si presenta sempre come una nuvola nera, perché non sai mai cosa può accadere.

In carcere il futuro inizia, terribilmente, la prima notte in cella. La dinamica dell’arresto è sempre un atto di violenza perché ti stacca da tutto e da tutti. Procedono al tuo arresto avendo già avvertito gli organi di informazione, poi tu finisci in pasto agli effetti mediatici. In carcere ti accompagnano in una cella che annovera sempre sporcizia di ogni tipo. Certo, la coperta è garantita, il cuscino no, il materasso è di spugna. Privo di tutto, perdi la concezione del tempo perché orologio, calendario e agendina non sono più con te. Allora la notte, se il silenzio è presente — e non sempre è così —, la tua testa inizia a pensare. Va subito alla famiglia, agli amici, al tuo ambiente che saprà quanto è accaduto dai mezzi di informazione con tante versioni mai verificate, ma utili allo scoop.

Poi, capisci che tutto quanto ti serve è legato a dare delle domande scritte, il cui esito è sempre incerto. Mai garantito. Il primo dramma è avvertire i tuoi familiari sul dove sei. Il carcere non lo fa: ti “consigliano” di chiedere al cappellano di farlo fare a lui. Poi c’è il problema del comunicare con i tuoi parenti: se non hai soldi per la scheda, c’è sempre… il cappellano. Per le convivenze è tutto complicato; se ci sono figli il problema è ancora più serio.

Pensi al tuo futuro che non sai quando sarà e dove avverrà. Il carcere ti sposta anche senza un motivo che tu possa conoscere. Sai quando sarà la fine della pena, ma questa può essere abbreviata per dei benefici lasciati alla valutazione del magistrato, che ha i suoi tempi per risponderti.

Pensi alla tua famiglia, se dopo l’arresto mantiene i rapporti, pensi alla tua casa, se non è stata venduta, pensi a quello che era il tuo lavoro, perché il carcere mette la parola fine a questo impegno.

Il futuro dietro le sbarre è sempre una nuvola nera che ti spaventa. Certo, il futuro lo puoi sognare, ma quando torni alla realtà ti accorgi che con l’entrata in carcere tutto è finito.

Si ricomincia da zero, quasi sempre senza validi accompagnamenti che ti reintroducano al mondo che hai lasciato. Il carcere ti fa comprendere come lo Stato ti abbia abbandonato e come il principio del reinserimento sia — nella maggior parte dei casi — solo un enunciato della Costituzione, ma mai realizzato. Ed allora il futuro è veramente complicato già nel pensarlo. Nel viverlo ancora peggio.

«Que sera, sera…» lasciamolo
a Doris Day

Il futuro, si sa, è “in mente Dei”: Lui sa esattamente che cosa vuole e lo ha opportunamente predisposto per ciascuno di noi. C’è chi lo chiama destino, fato, sorte; ci sembra più calzante “volere divino” nel senso di “di Dio”.

Chi ha voglia “di vino” da bere, se lo compri e non stia ad aspettare che Qualcuno cambi acqua in vino appositamente per lui: l’unico che una volta l’ha fatto non ha mai concesso il bis, probabilmente proprio per evitare che ne facessimo un’abitudine.

Invece, come soleva ripetere la mi’ mamma — da buona toscana —: «Aiutati, che Dio t’aiuta». Perché è vero che il futuro può incutere soggezione anche quando le cose vanno bene, figuriamoci quando vanno male! Siamo scottati e ci aspettiamo il peggio.

Ma se è “in mente Dei” non lo si può lasciar lì ed aspettare che venga giù magari canticchiando «Que sera, sera…» (anche la manna è caduta una volta sola): sarebbe peraltro un fatalismo estraneo al pensiero cattolico.

Il futuro va “aiutato” a concretizzarsi, a passare dalla mente di Dio alla terra. E a farci sognare.

Infatti il futuro fa paura proprio perché non lo conosciamo, non sappiamo che cosa ci riserba e ci appare come un salto nel buio.

Ma allora serve il sogno a darci fiducia, speranza, progettualità.

Un progetto, sia pure di massima, ci deve essere, altrimenti certo che andiamo alla cieca, alla giornata e il salto è nel buio. Dobbiamo illuminarlo un po’ questo salto.

Gli aborigeni australiani ritengono che solo quella onirica sia l’esperienza “reale” che fa testo. Quella vissuta durante la veglia — al contrario che in altre culture del mondo — è illusione.

Coraggio e speranza, allora! Paradossalmente, nel nostro caso per sognare dobbiamo “svegliarci”, uscire dal torpore, l’assuefazione, l’adagiarci, che è il nostro peggiore nemico; da un lato, cogliamo tutte le occasioni che ci si presentano: siano esse scrivere su un giornale, impartire lezioni di musica o quant’altro. Tutto fa brodo!

Dall’altro pensiamo ad obiettivi che vorremmo realizzare, e da cosa nascerà cosa.

Controlliamo il nostro estratto-conto: non quello in euro, che beninteso quasi sicuramente è approssimativamente o coincidente con zero: ma quello in talenti, valuta molto più pregiata su questo mercato.

Tutti ne disponiamo, chi più chi meno. Investiamo, dunque, in questa che abbiamo chiamato progettualità… Poi, certo, il rendimento sarà pur sempre “secundum voluntatem Dei”, ma «Que sera, sera…» lasciamolo a Doris Day.

Un mondo
alla rovescia

Con la fantasia sogno di essere un uccello e di vedere il mondo dall’alto, alla rovescia. Magari, in questo modo, lo vedrò più bello, più giusto.

Da lassù, vorrei captare le onde di un altro mondo, dove non esiste gente che soffre, piena dei dolori che la vita gli ha creato.

Ma poi smetto di fantasticare e torno alla realtà. Vedo miserie e dolori e penso: se riuscissimo a dare a quei dolori un senso, una motivazione, a trasformarli in rabbia, una rabbia positiva, quella rabbia che ti fa svegliare la mattina con la voglia di ricominciare a dire: io ci sono, io sono ancora vivo, esisto.

Allora, il futuro comincerebbe piano piano a essere meno buio. Si ricomincia a sognare una vita piena di dignità.

Per il futuro dei poveri (il mio) non ho un pensiero positivo. Vedo sempre più poveri che gridano e sempre meno orecchie che ascoltano.

Vi voglio bene.

Sognare il domani
guardando indietro

Parlare del futuro alla veneranda età di 82 anni compiuti è per me una piacevole dissertazione vetero-filosofica: è come sperare che la nostra vecchia, ma ben tenuta, auto ci porti in totale sicurezza fino all’ultima meta, in capo al mondo, per concludere degnamente la nostra meravigliosa avventura della vita!

Solo al compiere dei miei ottant’anni, per gli strani giochi della vita, ho appreso cosa sia “vivere” da poveri, e quindi in coscienza, poco so, di quello che realmente voglia dire essere in povertà assoluta, totalmente diseredato dalla società “civile” di cui ho, pur sempre, fatto parte.

Oggi, ad essere onesto, tornando indietro nel tempo, mi chiedo: “Che cosa ho fatto nell’arco della mia esistenza per contrastare la piaga della povertà?”.

E me lo chiedo, tenendo conto che, grazie a Dio, ho sempre avuto la fortuna di garantire, sia alla mia famiglia che a me stesso, una condizione di vita ben lontana dai problemi della povertà.

Ebbene, con modestia, debbo riconoscere che gli avvenimenti che si sono succeduti nella mia vita mi hanno dato la possibilità di dare il mio piccolo contributo, affinché tanta, tantissima brava e povera gente potesse sperare di vivere in condizioni umane.

Per oltre vent’anni, con tanti altri bravi e coraggiosi italiani abbiamo contribuito alla realizzazione, in zone ai limiti del deserto del Sahara algerino e marocchino, di importanti centri abitativi destinati a popolazioni per lo più nomadi (Tuareg e Mozabiti).

Come consulenti dei governi locali, in territori con una temperatura media intorno ai 50 gradi, abbiamo progettato e avviato centinaia di cantieri, affidati a imprese locali ed europee, per costruire abitazioni, scuole, ospedali, infrastrutture: tutto quello che serviva a quelle poverissime persone, da sempre decimate dalle malattie e dalla siccità, piccoli agglomerati urbani dove potessero vivere e, soprattutto, curare i loro malati e istruire i propri figli.

Oggi, avendo conosciuto da vicino la povertà e la solitudine, mi sono convinto che avrei dovuto pensare un po’ più al mio avvenire e, in particolare, alla mia famiglia che, per anni, purtroppo ho visto poco, troppo poco!

È tardi ormai per rammaricarsi dei miei trascorsi di vita.

È tardi per giudicare il mio passato. Spero solo che l’umanità comprenda come lavoro, progresso, civiltà, benessere e cultura siano figli di un mondo in pace, dove gli uomini, di qualsiasi razza o colore, possano vivere insieme in armonia, per lasciare ai propri figli un mondo migliore. Un mondo dove la parola “guerra” sia definitivamente bandita!

Sogniamo
ma facciamo anche qualcosa

Quando si chiede a una persona in difficoltà come vede il proprio futuro e quali siano i suoi sogni, le risposte che si ricevono sono sempre: la salute, la casa, il potersi togliere dalla strada e poter tornare ad una vita “normale”.

Quale sarà il futuro di chi vive in povertà, di chi soffre, degli scartati, di chi si trova ai margini delle nostre città?

Noi ci auguriamo, ovviamente, che possa essere migliore. Ma la realtà ci insegna che non sempre il futuro per queste persone è ben chiaro ai loro occhi.

Ciò che posso dire è che purtroppo la povertà non tende a diminuire. Anzi, è aumentata di molto. Ciò è dovuto, purtroppo, anche alla guerra che si sta combattendo a pochi passi da noi, oltre che al carovita, alla mancanza o alla perdita del lavoro, alla perdita della casa, della famiglia, ovvero di quei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione di cui tutti dovrebbero godere. E, invece, tante persone escono da quel cerchio improvvisamente, a volte senza rendersi conto che stanno andando incontro ad una vita fatta di povertà estrema, di sfiducia nel prossimo e anche in se stessi.

Ma il futuro e il coraggio di sognarlo non devono mai mancare a chi soffre e vive ai margini. Siamo noi, con il nostro amore e la nostra vicinanza, noi, con le associazioni e i volontari, siamo noi, che non voltiamo lo sguardo dall’altra parte, che possiamo e dobbiamo tenere viva la fiamma del futuro e dei sogni in queste persone, per dar loro la speranza che domani tutto possa cambiare e che possano realizzare davvero i loro sogni e il loro futuro: una vita, una casa, un lavoro, gli affetti familiari.

Il futuro... sogniamolo questo futuro migliore per loro e per tutti, ma assolutamente cerchiamolo e realizziamolo uniti. Solo così possiamo parlare di Futuro vero per tutti.

Il vizio
dell’accidia

«Lavativo, a chi? Come ti permetti di dirmi queste cose?». È vero, vivo per strada. Ma non per questo non faccio nulla!

Guardo, osservo, interagisco e, adesso, scrivo per questo giornale!

I tuoi luoghi comuni tienili per te. Cerca di capire che non tutti sono uguali. Non tutti si lasciano andare!

Ho i miei vizi, ma chi non li ha?

Adesso che ti ho detto queste cose, ti spiego cos’è il futuro per me. Ti parlo dell’accidia, uno dei sette vizi capitali. Poi, se vuoi, racconta tu cos’è per te.

Il futuro è la capacità di seguire la propria indole, le proprie caratteristiche non in modo egoistico, ma tendendo al bene comune. Ci si riesce?

Tendenzialmente sì, ma poi cosa succede? Proviamo dolore fisico e mentale durante la vita, in più alcune persone con cui viviamo ci trasmettono le proprie paure, i propri limiti. Tutto questo segna profondamente e chi non è abbastanza forte rischia di cadere in uno stato di apatia, di disinteresse per la vita, per il futuro, senza più sogni e si lascia trasportare dagli eventi.

Praticamente entra nell’accidia.

Quando si parla di questo vizio, si fa subito riferimento alle persone considerate “normali”. Ma gli altri, i cosiddetti diversamente abili?

Ho conosciuto alcune persone di questo tipo con tanta voglia di fare, nei loro limiti, ma che erano segregate dai loro tutori in un limbo di apatia forzata per paura che qualcuno facesse loro del male.

Dimmi, che tipo di futuro possono avere se non si dà loro nemmeno la possibilità di essere se stessi, ascoltando i loro desideri, le loro aspettative?

In particolare, ho conosciuto una donna che viveva in una casa protetta. Suonavamo il piano insieme. Passeggiavamo, scherzavamo e cercavamo di fare discorsi seri, sempre tenendo conto del suo ritardo. Era dolcissima e avevamo fatto amicizia. Un bel giorno, i tutori hanno voluto conoscermi. Vedendomi hanno pensato che volessi approfittare di lei, perché in quel periodo non stavo lavorando e lei prendeva la pensione. Ho provato a rassicurarli, spiegando l’amicizia che era nata. Ma senza successo.

Lei, durante il colloquio, disse una frase che mi è rimasta nel cuore e che mi fa pensare molto: «Lui è l’unico che mi tratta come una persona!».

Purtroppo, non la vedo più.

Le stanno impedendo il futuro!

Un misto
di chiaroscuri

Il futuro è un termine abusato e svuotato di contenuti, come il passato.

Percepisco la forza causativa del domani in un dipinto di Vilhelm Hammershøi che vidi alla Galleria nazionale di Danimarca a Copenaghen. Una donna è seduta su una sedia di vimini, nella penombra, dentro una stanza quasi dismessa. Una parte della stanza, così come la donna, è rischiarata dalla luce che filtra dalla finestra.

In quel frammento vedo il condensato del lavoro del domani.

Un misto di chiaroscuri.

Antonio

Erwin Alfredo Bendfeldt Rosada

s.c.

Fabrizio Salvati

Domenico

Alessandro

Angelo Zurolo

Mimmo

Attilio Saletta