Gentilezza
gioia e umiltà

SS Benedetto XVI , Visita pastorale alla Casa Circondariale di Rebibbia - Nuovo Complesso - ...
31 dicembre 2022

Il 19 aprile 2005 Joseph Ratzinger, che tre giorni prima aveva compiuto 78 anni, veniva eletto 265° Papa con il nome da lui scelto di Benedetto XVI .

Tutti ricordiamo le poche ma dense parole con cui si è presentato dalla Loggia delle Benedizioni: «Cari fratelli e sorelle, dopo il grande Papa Giovanni Paolo ii i signori cardinali hanno eletto un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere. Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto permanente, andiamo avanti, il Signore ci aiuterà e Maria, sua santissima Madre, sta dalla nostra parte. Grazie».

Chiamando “grande” il suo predecessore, per il quale aveva lavorato con strenua generosità fin dal 1981 quando fu nominato prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, attribuiva automaticamente il carattere della “piccolezza” a se stesso, aggiungendo poi anche la semplicità, l’umiltà, dichiarandosi infine “strumento insufficiente”. Una narrazione opposta a quella divulgata per anni dai mass-media che lo avevano dipinto come il panzer-kardinal, il prefetto di ferro, chiuso nelle astratte complicazioni della teologia e alla fine quindi arrogante nel suo porsi e imporsi come gendarme dell’ortodossia. Chi ha avuto la fortuna di conoscere di persona Joseph Ratzinger sa quale delle due versioni è la più aderente alla verità. Gentilezza, garbo, finezza, delicatezza, mitezza, leggerezza, umiltà... questa è la “costellazione” che ha illuminato la parabola umana di Joseph-Benedetto. Un’umiltà che si associava anche ad una forma semplice di senso dell’umorismo e di lieve ironia che ogni tanto trapelavano e colpivano gli osservatori più attenti.

Senza dubbio per lui l’umorismo era una virtù molto importante («La gioia profonda del cuore è anche il vero presupposto dello humour e così lo humour, sotto un certo aspetto, è un indice, un barometro della fede») soprattutto perché esso è collegato alla gioia che per il Papa emerito è l’essenza della fede. Nel saggio di teologia dogmatica Il Dio di Gesù Cristo afferma che: «Una delle regole fondamentali per il discernimento degli spiriti potrebbe essere dunque la seguente: dove manca la gioia, dove l’umorismo muore, qui non c’è nemmeno lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù Cristo. E viceversa: la gioia è un segno della grazia» e nel libro intervista con Peter Seewald Il sale della terra ribadisce che: «La fede dà la gioia. Se Dio non è qui, il mondo è una desolazione, e tutto diventa noioso, ogni cosa è del tutto insufficiente. [...] L’elemento costitutivo del cristianesimo è la gioia. Gioia non nel senso di un divertimento superficiale, il cui sfondo può anche essere la disperazione».

Ad un mondo “forzato” al divertimento perché profondamente disperato, Benedetto rispondeva con la gioia del Vangelo, con l’annuncio di una novità ricca di luce e di vita, capace di penetrare anche l’abisso più oscuro.

È questo il tema di una delle sue più belle riflessioni dedicate al triduo pasquale ed in particolare al Sabato Santo, giorno a cui era molto legato visto che coincideva con il 16 aprile 1927, data della sua nascita. In questa riflessione Ratzinger medita sul mistero di Gesù che discende agli inferi e così facendo va a liberare l’uomo dalla sua angoscia più atroce: «Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? [...] Una cosa è certa: si dà una notte nel cui buio non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine». La discesa di Gesù è una luce che penetra «anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti», in questo buio ecco che «si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è anche entrato nella regione della morte e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da lui» e conclude con parole che oggi risuonano in modo ancora più vertiginoso, se «qualche volta ci è dato di avvicinarci all’ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certezza sperante che in quell’ora di estrema solitudine non saremo soli, possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. Ed in mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio».

L’incipit di un racconto di Vladimir Nabokov parla di un signore tedesco, di nome Albinus, di cui si sa quel poco che recita la lapide funebre ma, scrive Nabokov, «sebbene la superficie di una pietra tombale orlata di muschio sia sufficiente a contenere il riassunto della vita di un uomo, i dettagli sono sempre i benvenuti». In queste pagine ci saranno alcuni dettagli della vita di Benedetto xvi , raccolti e raccontati nella luce della stessa fede che ha animato tutta la sua esistenza, quella fede dei cristiani che ben sanno che non esiste pietra tombale sufficiente a racchiudere il destino di nessun uomo. Il titolo di quel racconto è Una risata nel buio: è questa la condizione di Joseph-Benedetto che oggi ha attraversato la porta della morte per vivere in quella gioia e in quella luce che ha seguito con umile tenacia per tutta la vita. 

di Andrea Monda