Quando il campione brasiliano si raccontò a «L’Osservatore Romano»

Saudade do rei

 Saudade do rei  QUO-297
30 dicembre 2022

Pubblichiamo alcuni stralci della lunga intervista (pubblicata il 9 luglio 2009) che Pelé rilasciò al nostro giornale.

«Papà, chi è stato il più grande calciatore di sempre?». La domanda è semplice, ma è fatta da chi sembra stia per aprire il sigillo di un libro prezioso, custode di segreti arcani. La risposta non arriva subito. Il papà accende naturalmente il computer. E mentre si collega alla rete, afferma con un finto piglio serissimo:  «Non tutti sono d’accordo, c’è chi fa altri nomi, ma probabilmente uno è stato il più grande di tutti. Giocava in Brasile e lo chiamavano o rei do futebol».

A questo punto sullo schermo parte un video con i gol e le azioni più belle di Edson Arantes do Nascimento, in arte — per lui si può dire — Pelé. Agli occhi sgranati si accompagna la bocca aperta. Quasi incredulo di fronte alle immagini di dribbling, rovesciate, finte e controfinte, passaggi geniali e gol a raffica il bambino comincia a sognare di poter giocare in oratorio come il campione dei campioni. Del resto il calcio per i piccoli — beati loro — è proprio questo: puro divertimento, briglie sciolte dietro a un pallone e alla propria fantasia.

E quanta fantasia ha acceso per decenni il campione brasiliano. Tanto che viene da chiedersi: se il Real Madrid ha pagato Kaká sessantotto milioni di euro e Cristiano Ronaldo quasi cento, quanto costerebbe oggi Pelé?

«Pelé non avrebbe prezzo». È proprio lui a risponderci sfoderando un sorriso furbo e divertito.

Senza prezzo, anche se molte squadre negli anni Sessanta hanno provato ad acquistarla. Lei però è sempre rimasto fedele al suo Santos.

In realtà sono epoche e momenti differenti ed è difficile fare una comparazione. Io ho ricevuto proposte dal Real Madrid, dal Milan, dall’Inter, dalla Juventus. Ricordo che Agnelli aveva aperto la fabbrica della Fiat in Brasile e voleva pagare il Santos con le azioni della Fiat. Ma il Santos per me era una grande squadra e giocavamo molto bene. Non ho voluto lasciarla. Solo alla fine della carriera sono andato negli Stati Uniti, al Cosmos. Lì il campionato durava solo sei mesi. Per due campionati mi pagarono sette milioni di dollari. Più o meno potrebbero essere settanta milioni di oggi. E per sole due stagioni. Ma è difficile fare paragoni. Anche perché, a dire la verità, mi avrebbero pagato qualsiasi cifra. Il problema invece è che oggi anche un calciatore giovanissimo inizia a giocare pensando già a quanti soldi potrà guadagnare. Non gli importa dove giocherà. Un calciatore va al Real Madrid e bacia la maglia. Il giorno dopo cambia squadra e bacia la nuova casacca giurando amore eterno. In realtà amano solo chi li paga di più. E tutto questo è pericoloso per il futuro dello sport.

Torniamo indietro negli anni. Quando Edson Arantes do Nascimento è diventato Pelé?

Diciamo che ho “conosciuto” Pelé quando avevo 7-8 anni. Anche mio padre era un calciatore. Un buon calciatore. All’epoca vivevamo a Bauru, nello Stato di San Paolo. Papà mi aveva chiamato Edson in onore di Thomas Edison. E io andavo fiero di portare un nome così importante. Successe però che, giacché sbagliavo a pronunciare correttamente alcune parole, i bambini con cui giocavo per strada per prendermi in giro cominciarono a chiamarmi “Pelé” (un nome che non significa nulla, è solo una storpiatura). Io offeso replicavo:  “No. Io mi chiamo Edson!” e litigavo con loro. Il fatto è che gli stessi bambini frequentavano la mia scuola e fu così che quando arrivavo io tutti, per scherno, mi chiamavano “Pelé, Pelé, Pelé”. Praticamente litigavo con tutti. Quel nome mi faceva arrabbiare moltissimo. Oggi però ci sono molto affezionato.

Faceva cenno a suo padre. È stato lui il suo primo maestro di calcio?

Sì. Mio padre. Non è stato solo il mio primo maestro di calcio, lui soprattutto è stato per me maestro di vita, di rispetto per il prossimo. Dio mi ha fatto il dono di saper giocare al calcio — perché è davvero solo un dono di Dio — mio padre mi ha insegnato a usarlo, mi ha insegnato l’importanza di essere sempre pronto e allenato, e che oltre a saper giocare bene dovevo essere anche un uomo.

Quando lei era un bambino c’è stato mai qualcuno che ha detto:  «Questo non diventerà mai un campione...»?

Veramente no. Però le racconto un fatto curioso. Durante i mondiali del 1958 per la prima volta la nazionale brasiliana portò nel seguito anche uno psicologo. Si chiamava João Carvalhaes. Questo dottore fece colloqui, indagini e studi e alla fine disse all’allenatore:  «Pelé è troppo giovane, ha 17 anni. Non può giocare nella Coppa del Mondo». Secondo lui neanche Garrincha poteva scendere in campo: aveva 22 anni ma era un ragazzo piuttosto turbolento. Insomma il suo consiglio era: niente Pelé e Garrincha per la nazionale brasiliana. Per fortuna l’allenatore seppe guardare più lontano e disse: «Si sono preparati bene e io li faccio giocare».

Ha detto che la classe del campione è un dono di Dio. Ma cosa serve per rimanere un campione?

Innanzitutto rispettare il proprio corpo. E poi non pensare mai di essere il migliore. Nel momento in cui credi di essere il migliore arriverà senz’altro un altro più bravo di te.

Che ruolo aveva il calcio nel Brasile di Pelé bambino e come è cambiato il Brasile oggi?

Giacché stiamo parlando di calcio ma anche della vita, io allargherei il discorso al mondo intero. Tutto il mondo è cambiato. Basti pensare che quando ho partecipato al mio primo mondiale — avevo 17 anni — solo il Brasile aveva calciatori neri. Oggi invece moltissime nazionali europee schierano giocatori neri. Questo è il segno tangibile di una grande trasformazione sociale. C’è  maggiore integrazione.

Qual è il ruolo dello sport in questo mondo che cambia?

Innanzitutto lo sport può aiutarci a far crescere più sani i bambini. A tenerli lontani dalle droghe e da altre situazioni di disagio sociale. Poi, se pensiamo al calcio, possiamo considerare che la Fifa (Féderation internationale de football association) ha oggi più Paesi affiliati di quanti ne abbia l’Onu. Voglio dire che il calcio, lo sport, a volte riesce ad arrivare la dove non riesce la politica. Pensate a quanti milioni di partite vengono giocate in tutto il mondo: lo sport è davvero un fortissimo fattore di aggregazione.

Quale mondiale le è maggiormente rimasto nel cuore?

Direi tutti. E comunque quando vinci hai sempre dei grandi ricordi. Ma se devo scegliere direi il mondiale del 1970, perché è l’unico al quale ho partecipato per intero giocando le qualificazioni, le eliminatorie e le fasi finali. Due anni in tutto. Lo sento per questo particolarmente mio. Mi spiace che in finale abbiamo battuto l’Italia, ma è proprio quello che amo di più.

Cosa non le piace del calcio di oggi?

La cosa che odio maggiormente non ha a che fare con la tecnica, la tattica o altri aspetti squisitamente sportivi. È la violenza. Ma purtroppo è una piaga che caratterizza tutta la nostra società. Sì, la violenza legata al mondo del calcio mi dà veramente fastidio.

1.281 gol.  Quale  è  stato  il più emozionante?

Io penso che sia stato il millesimo. L’ho segnato nello stadio Maracanã su rigore. Era il 19 novembre 1969. Santos contro Vasco da Gama. Per la prima volta davanti al dischetto mi tremarono le gambe. Tutto il mondo aspettava quel gol. In quel momento ho sentito tutto il peso di quella responsabilità. E pensare che in quello stadio ho fatto gol in mille modi: dopo un dribbling, in rovesciata, di testa... Ma quel rigore fu davvero speciale. Ricordo che un giornalista disse che Dio stesso aveva preparato la partita facendo sì che il mio millesimo gol coincidesse proprio con quel rigore: in quella maniera tutto il mondo si poté fermare per guardarlo.

di Maurizio Fontana