Hic sunt leones
Il futuro dell’Africa nel contesto geopolitico internazionale segnato da contrapposizioni

Le sfide del multilateralismo e dell’interdipendenza

 Le sfide del multilateralismo  e dell’interdipendenza  QUO-297
30 dicembre 2022

«Il successo dell’Africa è il successo del mondo». La battuta è certamente a effetto e rappresenta la sintesi del messaggio che il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ha rivolto ai leader africani riuniti a Washington dal 13 al 15 dicembre su iniziativa della Casa Bianca.

Nel corso del vertice, durato tre giorni, è stata offerta la possibilità ai partecipanti di rafforzare i reciproci legami sulla base dei principi del rispetto reciproco e di interessi e valori condivisi. Il presidente Biden ha fatto intendere a chiare lettere che l’intento della sua amministrazione è quello di valorizzare al meglio l’Africa nel contesto internazionale, ricordando che lo scorso settembre ha annunciato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite che «gli Stati Uniti sostengono pienamente la riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per includere una rappresentanza permanente per l’Africa».

Il numero uno della Casa Bianca ha poi colto l’occasione per chiedere all’Unione africana (Ua) «di aderire al g20 come membro permanente». Si tratta, certamente, di un deciso cambio di rotta rispetto alla politica del suo predecessore Donald Trump, ben espresso in un commento apparso sul «The Washington Post», a firma dell’editorialista Eugene Robinson, che trova la sua sintesi proprio nel titolo: «Nella “nuova corsa per l’Africa”, gli africani devono venire per primi». È un riconoscimento dovuto anche se poi quanto auspicato non potrà prescindere dall’attuale congiuntura internazionale. Non è un caso se solo 49 erano quelle governative africane presenti al summit. Infatti, Guinea, Sudan, Mali, Burkina Faso, Eritrea e Somaliland sono rimasti fuori dalla lista degli invitati. Per quanto concerne i primi quattro, si tratta di Paesi sospesi dall’Ua a seguito di capovolgimenti politico-istituzionali. Mentre per quanto concerne il governo eritreo, il dipartimento di Stato Usa ha spiegato che la ragione risiede nel fatto che le relazioni diplomatiche tra Asmara e Washington sono molto tese. Il Somaliland invece non ha preso parte al vertice di Washington per il mancato riconoscimento da parte dell’Unione africana di quest’ultimo come Stato sovrano. Ciò non toglie che nel corso dei lavori vi è stato un evidente impegno dialogico da parte statunitense sapendo bene che quasi la metà dei Paesi africani non aveva votato lo scorso marzo la risoluzione con cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite condannava l’invasione della Russia in Ucraina. Sta di fatto che questo vertice è stato importante perché ha messo in vetrina, con grande chiarezza, quelle che sono le richieste dei Paesi africani in un contesto geopolitico internazionale segnato da forti contrapposizioni.

Nel complesso, le istanze poste dall’Africa hanno riguardato la proroga o la rinegoziazione del debito cresciuto a seguito della pandemia covid-19; l’esigenza di una transizione energetica equa, considerando che gli idrocarburi sono commodity che rappresentano fonti strategiche di approvvigionamento e introito per molti Paesi del continente; maggiori garanzie che l’African Growth and Opportunity Act (Agoa) in vigore dal 2000 venga rinnovato nel 2025, prolungando l’esenzione dai dazi doganali dei prodotti africani destinati al mercato statunitense per il quale attualmente sono 36 i Paesi eleggibili; ottenere assistenza per gli effetti del cosiddetto “global warming” e dei conseguenti cambiamenti climatici, causati peraltro in gran parte dai Paesi industrializzati; un forte sostegno nel gestire l’inflazione, acuitasi particolarmente nel corso del conflitto russo-ucraino e che sta penalizzando la sicurezza alimentare soprattutto nella macroregione subsahariana. Tutte richieste, queste formulate dai governi africani, che vengono considerate improcrastinabili per contrastare le diseguaglianze sociali e che richiedono alla prova dei fatti ingenti risorse economiche.

Come già annunciato alla vigilia del summit, Biden ha messo sul tavolo investimenti da 50 miliardi di dollari in tre anni per sviluppare l’economia, la sanità e la sicurezza del continente. È evidente negli ultimi anni l’influenza degli Stati Uniti in Africa si è dovuta misurare, dal punto di vista dei risultati, con gli interessi di altri attori internazionali: per citarne alcuni, dalla Cina alla Turchia; dalla Russia all’India; dagli Emirati Arabi Uniti al Brasile; per non parlare delle ex potenze coloniali europee che si sforzano — a dire il vero con una certa difficoltà — di mantenere la loro presenza nelle loro tradizionali aree d’influenza. Da rilevare che nel corso del vertice organizzato a Washington, il presidente Biden ha evitato di citare nelle dichiarazioni pubbliche la Cina che attualmente risulta essere il principale partner commerciale del continente africano. Lo scopo è stato evidentemente quello di evitare che il rinnovato interesse degli Stati Uniti per Africa potesse apparire, almeno sul piano formale, in contrapposizione a quelli di altri player internazionali. Potremmo dunque dire che l’amministrazione Biden ha fatto la scelta di perseguire una fine linea diplomatica incentrata fondamentalmente su tre cardini: anzitutto riprendere il lavoro della presidenza Obama, perseguendo un’agenda basata sull’interesse e sul rispetto reciproci. Al contempo ha fatto intendere di voler perseguire, in linea di principio, politiche sostenibili che rispondano ai bisogni reali del continente. Infine, considerando lo scompiglio generato dalla crisi russo-ucraina e dalla progressiva parcellizzazione degli interessi stranieri in Africa, Biden non ha chiesto ai governi locali di scegliere da che parte stare, ma di considerare che gli Usa nei prossimi anni faranno di tutto per diventare il partner più affidabile del continente.

Certamente non sarà facile recuperare il terreno perso durante l’amministrazione Trump che si disinteressò palesemente dell’Africa. Basti pensare al fatto che nel 2021 il commercio bilaterale Cina-Africa ha raggiunto i 254 miliardi di dollari, mentre gli Stati Uniti hanno conseguito un traguardo ben più modesto di circa 64 miliardi di dollari. Inoltre è importante ricordare che il governo di Pechino, sotto la guida di Xi Jinping, ha celebrato ben otto vertici “Africa+1” dai quali sono conseguite importanti intese sul programma sanitario e di salute pubblica, così come sul programma di riduzione della povertà, di promozione degli investimenti esteri e di contrasto al cambiamento climatico. È bene poi rammentare che il partenariato sino-africano, fin dagli esordi, ha dato un impulso notevole allo sviluppo infrastrutturale in Africa, dando nuova linfa alla Belt and Road Initiative (Bri), la nuova via della seta, ufficialmente inaugurata nel 2013, il cui valore stimato — per volume di scambi avvenuti dopo la sua istituzione — ha toccato i 4 miliardi di dollari Usa. Inoltre, il governo di Pechino sta lavorando congiuntamente con l’Ua per rendere operativa l’African Continental Free Trade Agreement (Afcfta). Si tratta di un’iniziativa panafricana, inaugurata ufficialmente il primo gennaio 2021, volta a creare un’area di libero scambio interna al continente, con lo scopo di supportare l’industrializzazione dell’Africa.

Questo indirizzo geostrategico da parte della Cina viene comunque visto con sospetto dai governi occidentali, soprattutto in riferimento al meccanismo di creazione di crescenti livelli di dipendenza dei Paesi africani coinvolti nel partenariato per via della loro incapacità a ripagare i debiti contratti per la realizzazione delle infrastrutture, la cosiddetta “trappola del debito”. La Cina naturalmente ha respinto al mittente queste accuse. Vi è inoltre una discreta preoccupazione per la possibile apertura di una seconda base navale cinese in Africa. La prima si trova a Gibuti, mentre la nuova dovrebbe affacciarsi sull’oceano Atlantico stando a fonti dell’intelligence statunitense riportate dal «The Wall Street Journal» il 5 dicembre 2021.

La questione era già stata affrontata nell’aprile dello stesso anno dal generale Stephen J. Townsend, capo dell’Africom, il comando militare Usa per le operazioni in Africa, in un’audizione alla commissione Forze armate del Senato americano. Questi timori sono poi stati confermati dalla decisione presa dal presidente Biden di inviare a ottobre in Guinea Equatoriale il suo vice consigliere principale per la sicurezza nazionale Jonathan Finer con l’intento di dissuadere il presidente Teodoro Obiang Nguema Mbasogo dal concedere a Pechino il permesso di costruire la struttura portuale nella città portuale di Bata. La “moral suasion”, però, stando a fonti giornalistiche, finora non pare abbia sortito alcun effetto.

Di fronte a questo scenario viene spontaneo domandarsi fino a che punto i governi africani e la stessa Ua saranno in grado di far valere l’auspicio secondo cui le relazioni con il mondo esterno devono essere concepite come qualificanti nel processo di transizione verso una maggiore stabilità e una migliore governance. Per dirla con le parole di monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali, occorre «recuperare la nozione di interdipendenza e ricostruire il multilateralismo intorno agli ideali di giustizia sociale e responsabilità reciproca tra le nazioni e all’interno di esse».

di Giulio Albanese