Hic sunt leones
Garantire i diritti dei popoli e degli Stati per riscattare l’Africa

Oltre il colonialismo

 Oltre il colonialismo  QUO-293
23 dicembre 2022

Sebbene l’Africa sia entrata a pieno titolo nel contesto del cosiddetto mondo globalizzato, in alcuni ambienti diplomatici, politici, economici e accademici a livello internazionale si riscontra un persistente “afropessimismo” di maniera che, per usare il gergo di un grande africanista del Novecento, il professore Giampaolo Calchi-Novati, descrive il continente come una sorta di «nebulosa indifferenziata in perenne emergenza».

Vi sono addirittura alcuni osservatori che giudicano questa fenomenologia come la fattispecie del fallimento. E dire che prima della pandemia la stampa internazionale aveva formulato valutazioni alquanto lusinghiere, sulla base dei tassi di crescita dei Paesi più favoriti del continente. La verità è che purtroppo vi sono alcune aree della macroregione subsahariana in cui la conflittualità è persistente con scampoli di territorio controllati a fasi alterne da truppe filogovernative, formazioni ribelli e task-force straniere. Basti pensare nel suo complesso alla fascia saheliana (Burkina Faso, Niger, Mali, Ciad e Nigeria settentrionale) per non parlare della Repubblica Centrafricana, del settore nord orientale della Repubblica Democratica del Congo, della Somalia o del Mozambico settentrionale. E cosa dire delle divisioni all’interno di una grande nazione come l’Etiopia? Il fatto che in questi ultimi due anni molto sangue sia scorso nelle regioni settentrionali del Paese la dice lunga.

Eppure, con le sue enormi risorse, l’Africa rappresenta un partner strategico del mondo industrializzato ed è sempre più presente nell’agenda della politica internazionale, anche perché influisce con le sue commodity (fonti energetiche in primis) sulla “sicurezza” dell’intero sistema mondiale. Non è un caso se a seguito della crisi russo-ucraina molti governi occidentali (e non solo) abbiano guardato all’Africa come a un’importante fonte di approvvigionamento. Nel frattempo però lievitano i pregiudizi, motivo per cui il continente avrebbe estremo bisogno dell’intervento delle potenze tecnologicamente avanzate per rimediare alle proprie difficoltà.

L’obiettivo dei player internazionali è certamente proteso a salvaguardare l’accesso alle materie prime strategiche (petrolio, gas, uranio, minerali preziosi, terre rare e quant’altro) e in alcuni casi di manodopera. D’altra parte, nel momento in cui l’Africa ha preteso che le proprie crisi avessero una soluzione africana, quelle, ancora più di quanto non accadesse durante la guerra fredda, hanno sempre più avuto connotazioni ed effetti globali. Si può comprendere allora come il montare di attenzioni si sia tradotto in interferenze, generando così un circolo vizioso tra questioni problematiche ad intra e risposte ad extra, spesso inconcludenti perché capaci di procrastinare nel tempo i fenomeni che si sarebbe preteso arginare. Emblematica è la crisi somala che, alla prova dei fatti, si protrae nel tempo dalla caduta del regime del presidente Mohammed Siad Barre nell’ormai lontano 1991. E cosa dire del jihadismo anti-occidentale? Sul fatto che l’Islam fosse storicamente presente in Africa dalle conquiste in epoca omayyade (661-750) non v’è dubbio e che le relazioni con l’Europa cristiana siano state, nel corso dei secoli, a volte traumatiche e violente — si pensi alle crociate o all’espansione dell’impero ottomano — è un dato di fatto. Ciò non toglie che la War on terror a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001 contro le organizzazioni terroristiche — prima fra tutte Al Qaeda — ha fatto sì che formazioni antigovernative preesistenti di matrice islamica presenti in Africa fossero classificate nella galassia jihadista attraverso un’operazione di franchising del terrore.

Da rilevare che le crisi africane non sono solo legate allo stato di belligeranza in questa o quella nazione, ma hanno a che fare anche con il tema delle diseguaglianze e dunque questioni sociali ed economiche irrisolte, per non parlare dei cambiamenti climatici che stanno penalizzando fortemente le popolazioni autoctone. Tutto questo però trova la sua ricapitolazione nella genesi degli Stati africani, venuti alla luce con la fine del colonialismo europeo, e l’assegnazione di territori disegnati a tavolino e comunque rispondenti a logiche esterne e istituzioni formali d’importazione. Ciò ha impedito che si innescassero, almeno nei primi decenni d’indipendenza, processualità interne. Come ebbe a scrivere Calchi-Novati, «lo Stato postcoloniale ha adottato un modello che riprende l’esperienza europeo-occidentale, ma si è trovato nella necessità di adattarlo a requisiti ambientali e storico-culturali che in parte hanno stravolto il modello, degenerando in patologie per certi versi funzionali a garantire una parvenza di governance mettendo in moto un’economia e aggregati informali o decisamente illegali».

Un esempio emblematico è quello del Sud Sudan. Com’è noto, stiamo parlando dell’ultimo Stato nato a seguito della consultazione referendaria che sancì nel gennaio del 2011 l’indipendenza delle regioni meridionali sudanesi dal Nord di tradizione islamica. Da rilevare che i territori del Sud Sudan e del Nord Sudan erano entrambi parte del Regno d’Egitto, sotto la dinastia di Muhammad Ali, in seguito regolati come un condominio anglo-egiziano fino all’indipendenza sudanese del 1956. Occorre comunque ricordare che nel 1947, i britannici, per via negoziale, cercarono di staccare il Sudan del Sud dal Sudan e di unirlo all’Uganda. Tuttavia, questo tentativo fu annullato dalla Conferenza di Juba che proprio in quell’anno unificò il Nord e il Sud del Sudan. Le popolazioni delle province meridionali non furono minimamente in grado di competere con la storia del Nord, una sorta di appendice dell’epopea dei Faraoni. Sfruttate per le loro risorse (oro, minerali e schiavi), quelle terre meridionali vennero discriminate in termini di lingua, religione e accesso al potere dopo la costituzione dello Stato musulmano. La retorica nazionale del Sudan era d’altronde monopolizzata dalla saga del maidismo. Le comunità afro del Sud, parzialmente cristianizzate e non di lingua araba, furono emarginate dal sistema. Ecco che allora lo Stato sudanese, finalmente libero dal dominio coloniale britannico, si rivelò un «quasi Stato» trascinandosi dietro questioni irrisolte che pregiudicarono l’integrazione.

Ma la definizione di «quasi Stato», ricorrente negli scritti di Calchi-Novati, è molto più estensiva nel senso che si riferisce non solo all’Africa, anche se proprio in Africa ebbe la maggiore diffusione. A questo proposito, nella macroregione subsahariana gli esempi sono molteplici. Basti pensare ai traumi causati in Nigeria alle varie realtà etniche, regionali e statuali che non erano state preparate in tempo a una qualche forma di sintesi o, appunto, di «amalgama» prima che fosse dichiarata l’indipendenza il 1° ottobre del 1960.

Guardando al futuro, considerando che a seguito della crisi russo-ucraina il multilateralismo sembra essersi dissolto e che l’Africa appare sempre più parcellizzata in aree d’interesse dai grandi player internazionali (la dicono lunga la presenza di numerosi contractor o soldati di ventura che dir si voglia, oltre all’accresciuto numero di basi militari straniere sul territorio africano), la vera sfida per le classi dirigenti afro sta certamente, ricorrendo sempre alla preziosa ermeneutica di Calchi-Novati, nel difendere il tasso di «esistibilità» e «governabilità» dei propri Stati. Vale a dire garantire i diritti dei popoli, in particolare delle minoranze nello spazio precostituito, contrastando la tentazione sempre in agguato di matrice straniera, quella del «quasi Stato» di cui sopra, con una presunta legittimità, nella migliore delle ipotesi comunque incerta, con il solo fine di salvaguardare interessi di parte secondo il tradizionale copione coloniale. Il magistero di Papa Francesco sulla fratellanza universale è quello che meglio esprime queste istanze di riscatto, ricordando che i popoli, nel perimetro del nostro povero mondo, hanno un destino comune.

di Giulio Albanese