L’udienza alla Curia romana per gli auguri natalizi
Il discorso del Papa durante l’incontro nell’Aula della Benedizione

Bisognosi di conversione

 Bisognosi di conversione  QUO-292
22 dicembre 2022

La conversione «non è mai un discorso concluso», perché «davanti al Vangelo rimaniamo sempre come dei bambini bisognosi di imparare». Lo ha ricordato Papa Francesco ai membri della Curia romana, in occasione dell’annuale udienza per gli auguri natalizi svoltasi stamane, giovedì 22 dicembre, nella Aula della Benedizione.

Cari fratelli e care sorelle!

1. Il Signore ci dà ancora una volta la grazia di celebrare il mistero della sua nascita. Ogni anno, ai piedi del Bambino che giace nella mangiatoia (cfr. Lc 2, 12), veniamo messi nella condizione di guardare la nostra vita a partire da questa speciale luce. Non è la luce della gloria di questo mondo, ma «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1, 9). L’umiltà del figlio di Dio che viene nella nostra condizione umana è per noi scuola di adesione alla realtà. Così come Egli sceglie la povertà, che non è semplicemente assenza di beni, ma essenzialità, allo stesso modo ognuno di noi è chiamato a ritornare all’essenziale della propria vita, per buttare via tutto ciò che è superfluo e che può diventare impedimento nel cammino di santità. E questo cammino di santità non va negoziato.

2. È però importante avere chiaro che quando si esamina la propria esistenza o il tempo trascorso, bisogna sempre avere come punto di partenza la memoria del bene. Infatti, solo quando siamo consapevoli del bene che il Signore ci ha fatto siamo anche in grado di dare un nome al male che abbiamo vissuto o subito. Essere consapevoli della nostra povertà senza esserlo anche dell’amore di Dio ci schiaccerebbe. In questo senso l’atteggiamento interiore a cui dovremmo dare più importanza è la gratitudine.

Il Vangelo, per spiegarci in che cosa essa consiste, ci racconta la storia dei dieci lebbrosi che furono tutti sanati da Gesù; solo uno però torna indietro a ringraziare, un samaritano (cfr. Lc 17, 11-19). L’atto di ringraziare ottiene a quest’uomo, oltre alla guarigione fisica, la salvezza totale (cfr. v. 19). L’incontro con il bene che Dio gli ha concesso non si ferma cioè alla superficie, ma tocca il cuore. È così: senza un costante esercizio di gratitudine finiremmo solo per fare l’elenco delle nostre cadute e oscureremmo ciò che più conta, cioè le grazie che il Signore ci concede ogni giorno.

3. Molte cose sono accadute in questo ultimo anno, e innanzitutto vogliamo dire grazie al Signore per tutti i benefici che ci ha concesso. Ma tra tutti questi benefici speriamo che ci sia anche la nostra conversione. Essa non è mai un discorso concluso. La cosa peggiore che possa accaderci è pensare di non avere più bisogno di conversione, a livello sia personale sia comunitario.

Convertirsi è imparare sempre di più a prendere sul serio il messaggio del Vangelo e tentare di metterlo in pratica nella nostra vita. Non è semplicemente prendere le distanze dal male, è mettere in pratica tutto il bene possibile: questo è convertirsi. Davanti al Vangelo rimaniamo sempre come dei bambini bisognosi di imparare. Presumere di avere imparato tutto ci fa cadere nella superbia spirituale.

Quest’anno sono ricorsi i sessant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. Cos’è stato l’evento del Concilio se non una grande occasione di conversione per tutta la Chiesa? San Giovanni XXIII a questo proposito disse: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». La conversione che il Concilio ci ha donato è stato il tentativo di comprendere meglio il Vangelo, di renderlo attuale, vivo, operante in questo momento storico.

Così, come più volte era già accaduto nella storia della Chiesa, anche nella nostra epoca come comunità di credenti ci siamo sentiti chiamati a conversione. E questo percorso è tutt’altro che concluso. L’attuale riflessione sulla sinodalità della Chiesa nasce proprio dalla convinzione che il percorso di comprensione del messaggio di Cristo non ha fine e ci provoca continuamente.

Il contrario della conversione è il fissismo, cioè la convinzione nascosta di non avere bisogno di nessuna comprensione ulteriore del Vangelo. È l’errore di voler cristallizzare il messaggio di Gesù in un’unica forma valida sempre. La forma invece deve poter sempre cambiare affinché la sostanza rimanga sempre la stessa. L’eresia vera non consiste solo nel predicare un altro Vangelo (cfr. Gal 1, 9), come ci ricorda Paolo, ma anche nello smettere di tradurlo nei linguaggi e nei modi attuali, cosa che proprio l’Apostolo delle genti ha fatto. Conservare significa mantenere vivo e non imprigionare il messaggio di Cristo.

4. Il vero problema, però, che tante volte dimentichiamo, è che la conversione non solo ci fa accorgere del male per farci scegliere il bene, ma nello stesso tempo spinge il male ad evolversi, a diventare sempre più insidioso, a mascherarsi in maniera nuova affinché facciamo fatica a riconoscerlo. È una vera lotta. Il tentatore torna sempre, e torna travestito.

Gesù nel Vangelo usa un paragone che ci aiuta a comprendere quest’opera che è fatta di tempi e modi diversi: «Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino» (Lc 11, 21-22). Il nostro primo grande problema è confidare troppo in noi stessi, nelle nostre strategie, nei nostri programmi. È lo spirito pelagiano di cui più volte ho parlato. Allora alcuni fallimenti sono una grazia, perché ci ricordano che non dobbiamo confidare in noi stessi, ma solo nel Signore. Alcune cadute, anche come Chiesa, sono un grande richiamo a rimettere Cristo al centro. Perché «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Lc 11, 23). È così semplice.

Cari fratelli e care sorelle, è troppo poco denunciare il male, anche quello che serpeggia in mezzo a noi. Ciò che si deve fare è decidere una conversione davanti ad esso. La semplice denuncia può darci l’illusione di aver risolto il problema, ma in realtà quello che conta è operare dei cambiamenti che ci mettano nella condizione di non lasciarci più imprigionare dalle logiche del male, che molto spesso sono logiche mondane. In questo senso, una delle virtù più utili da praticare è quella della vigilanza. Gesù descrive la necessità di questa attenzione su noi stessi e sulla Chiesa — la necessità della vigilanza — attraverso un esempio efficace: «Quando lo spirito impuro esce dall’uomo — dice Gesù —, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima» (Lc 11, 24-26). La nostra prima conversione riporta un certo ordine: il male che abbiamo riconosciuto e tentato di estirpare dalla nostra vita, effettivamente si allontana da noi; ma è da ingenui pensare che rimanga lontano per lungo tempo. In realtà, dopo un po’ si ripresenta a noi sotto una nuova veste. Se prima appariva rozzo e violento, ora invece si comporta in maniera più elegante ed educata. Allora abbiamo ancora una volta bisogno di riconoscerlo e smascherarlo. Permettetemi l’espressione: sono i “demoni educati”: entrano con educazione, senza che io me ne accorga. Solo la pratica quotidiana dell’esame di coscienza può far sì che ce ne rendiamo conto. Per questo si vede l’importanza dell’esame di coscienza, per vigilare la casa.

Nel secolo xvii — per esempio — ci fu il famoso caso delle monache di Port Royal. Una delle loro abbadesse, Madre Angelica, era partita bene: aveva “carismaticamente” riformato sé stessa e il monastero, respingendo dalla clausura perfino i genitori. Era una donna piena di doti, nata per governare, ma poi diventò l’anima della resistenza giansenista, mostrando una chiusura intransigente persino davanti all’autorità ecclesiastica. Di lei e delle sue monache si diceva: "Pure come angeli, superbe come demoni".  Avevano scacciato il demonio, ma poi era tornato sette volte più forte e, sotto la veste dell’austerità e del rigore, aveva portato rigidità e presunzione di essere migliori degli altri. Sempre torna: il demonio, cacciato via, torna; travestito, ma torna. Stiamo attenti!

5. Gesù, nel Vangelo, racconta molte parabole rivolte soprattutto a ben pensanti, a scribi e farisei, con l’intento di portare alla luce l’inganno di sentirsi giusti e disprezzare gli altri (cfr. Lc 18, 9). Ad esempio, nelle cosiddette parabole della misericordia (cfr. Lc 15), Egli narra non solo le storie della pecorella smarrita o del figlio minore di quel povero padre, che si vede trattato da morto proprio da quest’ultimo, le quali ci ricordano che il primo modo di peccare è andarsene, perdersi, fare cose evidentemente sbagliate; ma in quelle parabole parla anche della dracma perduta e del figlio maggiore. Il paragone è efficace: ci si può perdere anche in casa, come nel caso della moneta di quella donna; e si può vivere infelici pur rimanendo formalmente nel recinto del proprio dovere, come accade al figlio maggiore del padre misericordioso. Se, per chi va via, è facile accorgersi della distanza, per chi rimane in casa è difficile rendersi conto di quanto si viva all’inferno, per la convinzione di essere solo vittime, trattati ingiustamente dall’autorità costituita e, in ultima analisi, da Dio stesso. E quante volte ci succede questo, qui, a casa!

Cari fratelli e care sorelle, a tutti noi sarà successo di perderci come quella pecorella o di allontanarci da Dio come il figlio minore. Sono peccati che ci hanno umiliato, e proprio per questo, per grazia di Dio, siamo riusciti ad affrontarli a viso scoperto. Ma la grande attenzione che dobbiamo prestare in questo momento della nostra esistenza è dovuta al fatto che formalmente la nostra vita attuale è in casa, tra le mura dell’istituzione, a servizio della Santa Sede, nel cuore stesso del corpo ecclesiale; e proprio per questo potremmo cadere nella tentazione di pensare di essere al sicuro, di essere migliori, di non doverci più convertire.

Noi siamo più in pericolo di tutti gli altri, perché siamo insidiati dal “demonio educato”, che non viene facendo rumore ma portando fiori. Scusatemi, fratelli e sorelle, se a volte dico cose che possono suonare dure e forti, non è perché non creda nel valore della dolcezza e della tenerezza, ma perché è bene riservare le carezze agli affaticati e agli oppressi, e trovare il coraggio di “affliggere i consolati”, come amava dire il servo di Dio don Tonino Bello, perché a volte la loro consolazione è solo l’inganno del demonio e non un dono dello Spirito.

6. Infine, un’ultima parola la vorrei riservare al tema della pace. Tra i titoli che il profeta Isaia attribuisce al Messia c’è quello di «Principe della pace» (9, 5). Mai come in questo momento sentiamo un grande desiderio di pace. Penso alla martoriata Ucraina, ma anche a tanti conflitti che sono in atto in diverse parti del mondo. La guerra e la violenza sono sempre un fallimento. La religione non deve prestarsi ad alimentare conflitti. Il Vangelo è sempre Vangelo di pace, e in nome di nessun Dio si può dichiarare “santa” una guerra.

Dove regnano morte, divisione, conflitto, dolore innocente, lì noi possiamo solo riconoscere Gesù crocifisso. E in questo momento è proprio a chi più soffre che vorrei si rivolga il nostro pensiero. Ci vengono in aiuto le parole di Dietrich Bonhoeffer, che dal carcere dove era prigioniero scriveva: «Guardando la cosa da un punto di vista cristiano, non può essere un problema particolare trascorrere un Natale nella cella di una prigione. Molti, in questa casa, celebreranno probabilmente un Natale più ricco di significato e più autentico di quanto non avvenga dove di questa festa non si conserva che il nome. Un prigioniero capisce meglio di chiunque altro che miseria, sofferenza, povertà, solitudine, mancanza di aiuto e colpa hanno, agli occhi di Dio, un significato completamente diverso che nel giudizio degli uomini; che Dio volge lo sguardo proprio verso coloro da cui gli uomini sono soliti distoglierlo; che Cristo nacque in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo; tutto questo per un prigioniero è veramente un lieto annunzio» (Resistenza e resa, Cinisello Balsamo - mi, Ed. Paoline, 1988, 324).

7. Cari fratelli e care sorelle, la cultura della pace non la si costruisce solo tra i popoli e tra le nazioni. Essa comincia nel cuore di ciascuno di noi. Mentre soffriamo per l’imperversare di guerre e violenze, possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo alla pace cercando di estirpare dal nostro cuore ogni radice di odio e risentimento nei confronti dei fratelli e delle sorelle che vivono accanto a noi. Nella Lettera agli Efesini leggiamo queste parole, che ritroviamo anche nella preghiera di Compieta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (4, 31-32). Possiamo domandarci: quanta asprezza c’è nel nostro cuore? Che cos’è che la alimenta? Da cosa nasce lo sdegno che molto spesso crea distanze tra di noi e alimenta rabbia e risentimento? Perché la maldicenza in tutte le sue declinazioni diventa l’unico modo che abbiamo per parlare della realtà?

Se è vero che vogliamo che il clamore della guerra cessi lasciando posto alla pace, allora ognuno inizi da sé stesso. San Paolo ci dice chiaramente che la benevolenza, la misericordia e il perdono sono la medicina che abbiamo per costruire la pace.

La benevolenza è scegliere sempre la modalità del bene per rapportarci tra di noi. Non esiste solo la violenza delle armi, esiste la violenza verbale, la violenza psicologica, la violenza dell’abuso di potere, la violenza nascosta delle chiacchiere, che fanno tanto male e distruggono tanto. Davanti al Principe della Pace che viene nel mondo, deponiamo ogni arma di ogni genere. Ciascuno non approfitti della propria posizione e del proprio ruolo per mortificare l’altro.

La misericordia è accettare che l’altro possa avere anche i suoi limiti. Anche in questo caso è giusto ammettere che persone e istituzioni, proprio perché sono umane, sono anche limitate. Una Chiesa pura per i puri è solo la riproposizione dell’eresia catara. Se così non fosse, il Vangelo, e la Bibbia in generale, non ci avrebbero raccontato limiti e difetti di molti che oggi noi riconosciamo come santi.

Infine il perdono è concedere sempre un’altra possibilità, cioè capire che si diventa santi per tentativi. Dio fa così con ciascuno di noi, ci perdona sempre, ci rimette sempre in piedi e ci dona ancora un’altra possibilità. Tra di noi deve essere così. Fratelli e sorelle, Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi a stancarci di chiedere perdono.

Ogni guerra per essere estinta ha bisogno di perdono, altrimenti la giustizia diventa vendetta, e l’amore viene riconosciuto solo come una forma di debolezza.

Dio si è fatto bambino, e questo bambino, diventato grande, si è lasciato inchiodare sulla croce. Non c’è cosa più debole di un uomo crocifisso, eppure in quella debolezza si è manifestata l’onnipotenza di Dio. Nel perdono opera sempre l’onnipotenza di Dio. La gratitudine, la conversione e la pace siano allora i doni di questo Natale.

Auguro a tutti buon Natale! E ancora una volta vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie!

 

Una voce di pace per far tacere le armi

Il saluto del cardinale decano


Pubblichiamo il testo del saluto rivolto al Pontefice, a nome dei presenti, dal decano del Collegio cardinalizio Giovanni Battista Re.

Beatissimo Padre,

in questo incontro in cui già si respira  la letizia e la soave atmosfera del Natale, mi faccio voce di tutti i presenti per porgere a Vostra Santità gli auguri più fervidi, ispirati ed avvalorati dalla celebrazione dell’evento più alto della storia del mondo, quello in cui il Figlio di Dio si è fatto uomo, si è fatto uno di noi.

Purtroppo la consueta atmosfera natalizia quest’anno è turbata dalla drammatica situazione che l’umanità sta attraversando non solo per la pandemia del Covid, che non è ancora terminata nel mondo, ma soprattutto per le tragiche guerre, che continuano a far versare fiumi di lacrime e di sangue, oltre che generare sofferenze e angosce nelle popolazioni dei Paesi coinvolti. E fra le varie guerre preoccupa in modo particolare quella che è combattuta con ferite atroci in Ucraina e che ha riflessi pesanti nel mondo intero. Quanto pesino sul cuore del Papa le sofferenze del martoriato popolo ucraino rimane testimoniato dalla commozione di Vostra Santità nella recita della preghiera alla Madonna in piazza di Spagna lo scorso 8 dicembre.

Vostra Santità ha elevato continuamente la voce per far capire che «con la guerra siamo tutti sconfitti» e  per sottolineare che la guerra è una follia, una inutile strage, una mostruosità, invitando con forza a far tacere le armi e ad avviare seri negoziati di pace.

 Merita poi alto apprezzamento la vasta opera svolta da Vostra Santità per soccorrere i feriti, i rimasti senza tetto, le numerose persone in fuga, bisognose di aiuto per sopravvivere.

Per quanto riguarda la Curia romana, l’anno che volge al termine resta segnato dalla riforma promulgata con la costituzione apostolica  Praedicate Evangelium, che viene incontro alle necessità del nostro tempo e contribuisce a rendere la Curia romana più rispondente  ai suoi  grandi compiti di servizio al primato del Papa e di servizio ai vescovi e alla Chiesa in questo momento storico. C’è  compiacimento in Curia per l’aumento dei laici, uomini e donne, in vari importanti incarichi di responsabilità, che non presuppongono il sacramento dell’ordine.  

Caratterizza la riforma soprattutto un maggior spirito missionario e un crescente impegno nell’evangelizzazione, che porterà a far conoscere sempre di più la bellezza delle perenni verità del Vangelo agli uomini e alle donne di oggi  e gioverà ad un rinnovamento spirituale della Chiesa. 

Questa riforma, di cui siamo grati a Vostra Santità,  impegna tutti noi ad una più profonda spiritualità, a una maggior dedizione e a più intenso spirito di servizio, con  intimo senso di responsabilità verso la Chiesa e il mondo e con più intensa fraternità fra di noi, che ha le sue radici nell’amore di Dio.

Nel corso dell’anno, Vostra Santità, nonostante la difficoltà di deambulazione, ha svolto un’attività  instancabile,  affrontando i turbolenti problemi della società odierna che si riflettono sulla Chiesa e compiendo  viaggi apostolici di grande significato.

L’asse portante della visita apostolica in Canada è stato il cammino di memoria, di riconciliazione e di guarigione con le popolazioni indigene.

Il viaggio in Kazakhstan è stato un incontro, oltre che con i cattolici di quella giovane nazione, con i capi delle religioni, lanciando un forte messaggio di pace e di unità.

Anche quello in Bahrein è stato un viaggio di incontro e di dialogo: uno sforzo per costruire ponti  col mondo musulmano e un incontro con i cattolici di varie nazionalità presenti nel Paese.

 Nei mesi precedenti era stata importante dal punto di vista pastorale la visita apostolica a Malta. 

Venerato e amato successore di Pietro, ci stringiamo attorno a lei in comunione di fede, di preghiera e di affetto filiale, augurando buon Natale e felice anno nuovo.


Il dono del Pontefice


Sono Vita di Gesù di Andrea Tornielli e Passiamo all’altra riva di don Benito Giorgetta i due libri offerti in dono dal Pontefice ai membri della Curia romana al termine dell’udienza. Il primo (Piemme, Casale Monferrato,  2o22), del direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione, contiene il commento di Papa Francesco che firma anche l’introduzione del volume. Il secondo, scritto dal sacerdote molisano, parroco di San Timoteo a Termoli, in dialogo con Luigi Bonaventura, racconta il passato di quest’ultimo nella ’ndrangheta e la sua esperienza ora come collaboratore di giustizia. Il volume ha la prefazione del Papa e la postfazione di don Luigi Ciotti.