Hic sunt leones
Lo sviluppo della cinematografia del continente come segno di riscatto

Schermi d’Africa

 Schermi d’Africa  QUO-287
16 dicembre 2022

Esiste un’Africa Subsahariana che noi europei non riusciamo minimamente a immaginare e che per certi versi non ha nulla da invidiare all’Occidente. Stiamo parlando dell’industria televisiva e cinematografica afro, in netta espansione su molti fronti: dal Rwanda alla Nigeria, dalla Tanzania al Kenya, dal Sud Africa alla Namibia. A raccontare questo nuovo scenario, anni luce dall’immaginario nostrano, è uno dei più grandi esperti di comunicazione massmediale africana. Si chiama padre Fabrizio Colombo, missionario comboniano, vice presidente di Crec International di Lione (Centro di ricerca ed educazione alla comunicazione fondato dal celebre padre Pierre Babin, Oblato di Maria Immacolata), consulente dell’Unione europea per il Fespaco (Pan-African Film & Tv Festival di Ouagadougou in Burkina Faso) e direttore artistico del Mashariki African Film Festival, importante rassegna cinematografica rwandese. Si tratta di un evento ideato per rispondere alle richieste di un pubblico cinematografico in rapida crescita e alla crescente domanda cinematografica di interscambio tra le case di produzione, i registi, la diaspora africana e il mercato internazionale.

Mashariki 2022, conclusosi il mese scorso a Kigali, ha dedicato particolare attenzione ai vari generi cinematografici: dal cinema indipendente, a quello d’autore, tutto rigorosamente made in Africa. «Un Festival come quello di Kigali rappresenta l’occasione privilegiata — spiega Padre Colombo — per prendere coscienza del dinamismo culturale e tecnologico di un’Africa in progressiva trasformazione. In particolare durante il Mashariki si è svolta una due giorni di business meeting, coordinata dal Rfo (Rwanda Film Office) a cui hanno preso parte produttori, buyer e distributori di contenuti Tv e film (175 compagnie, tra cui Bbc, Tv5, Africa24...) Dagli anni ‘60 ad oggi, l’industria dell’immagine è cresciuta in modo esponenziale. Basti solo pensare che il business di cui stiamo parlando nella zona di lingua Swahili è di almeno 300 milioni di spettatori per le piattaforme e le Tv».

Tornando indietro nel tempo, spiega sempre Padre Colombo, ci si rende conto che le produzioni africane hanno fatto passi da gigante. Sovvengono istintivamente alla memoria le imperdibili storie africane di pellicole del calibro di Yeelen (luce in lingua Bambara) realizzata dal regista maliano Souleymane Cissé, premio della giuria al Festival di Cannes nel 1987. E cosa dire della cinematografia afro dei primordi, quella del senegalese Sembene Ousmane. Pensiamo, ad esempio, al suo primissimo film girato in Africa da un africano, Borom Sarret, del 1963: storia di un povero carrettiere duramente penalizzato perché entrato nei quartieri benestanti della capitale senegalese, Dakar. Per non parlare dell’ultimo, risalente al 2003, intitolato Moolaadé, una storia altamente istruttiva che riguarda delle donne coraggiose le quali hanno deciso di battersi contro le mutilazioni genitali femminili.

Queste sono tutte pellicole proiettate sugli schermi del Fespaco, un Festival certamente originale, che lanciò peraltro al grande pubblico francofono vent’anni fa Africa Paradis del beninese Sylvestre Amoussou, meritando il plauso della giuria. «Ho trovato davvero profetico — spiega Padre Colombo — il messaggio provocatorio del regista. L’Europa è diventata un continente invivibile, lacerato da guerre, mancanza di lavoro, colonizzazioni. I bianchi fanno la coda per ottenere il visto per l’Africa, continente ricco e rigoglioso, dove le famiglie vivono nel lusso e i figli studiano e fanno carriera. Ma convincere i funzionari neri non è semplice. C’è chi, tra i bianchi, è disposto a pagare per essere traghettato di nascosto nel nuovo paradiso, dove l’immigrazione è controllata. Come andrà a finire? Il messaggio è aperto alla speranza: di fronte ad un mondo capovolto in una esilarante parodia Amoussou spiega che il futuro dell’umanità è il meticciato, l’incontro esistenziale tra sud e nord, tra nero e bianco». Sta di fatto che dopo la parentesi imposta dal covid-19, il Fespaco si svolgerà a Ouagadougou dal 25 febbraio al 4 marzo del prossimo anno. Lo ha annunciato in questi giorni il capo di gabinetto del ministero burkinabé della Comunicazione, della cultura, delle arti e del turismo, Atéridar Galip Somé, confermando così lo svolgimento della 28ª edizione del Festival panafricano.

In un continente dove scarseggiano ancora le sale (1 schermo ogni 600.000 abitanti), ma con un network televisivo in crescita esponenziale attraverso nuove emittenti e piattaforme, il Fespaco è ancora la più grande e longeva kermesse cinematografica a Sud del Sahara, ma molti sono i Festival che crescono e proliferano nel continente, segno che il cinema africano è in forte espansione. Nonostante la crisi securitaria che ha trasformato la fascia saheliana in una zona geografica a rischio attentati, l’avvento delle piattaforme streaming ha fatto sì che il Fespaco nel 2022 ricevesse 1.132 opere, selezionandone poi 239 per un pubblico di 150.000 festivalieri venuti da 64 Paesi. Ma attenzione: l’industria cinematografica africana è fiorente anche altrove. Ad esempio, dal 28 al 31 marzo 2023, si svolgerà, nello Stato nigeriano di Lagos, l’African Indigenous Language Film Festival (Ailff) presso il Prestigious Viva Cinema di Ikeja. Lo scopo è quello di promuovere il progresso del cinema nelle lingue autoctone attraverso la proiezione di film, seminari di formazione e conferenze. Ma la Nigeria è diventato un polo capace di produrre i più svariati generi televisivi e cinematografici. Basti pensare a Nollywood (espressione nata dalla fusione di due parole, Nigeria e Hollywood), l’industria cinematografica nigeriana. Si tratta di una produzione straordinaria tanto nei contenuti quanto nei numeri a cui attingono giganti del calibro di Netflix. Lo stesso ragionamento, con declinazioni certamente diverse, riguarda il Kenya dove il governo locale nel 2005 ha contribuito a istituire la Kenya Film Commission (Kfc) che è entrata in funzione a metà del 2006. Questo Paese, peraltro, è un’ottima location per la maggior parte delle produzioni televisive sulla fauna selvatica. Molte serie premiate in riferimento a questo tema sono state girate proprio in Kenya da Bbc Natural History, Discovery, Survival e da altre case di produzione. Non è da meno la Namibia dove i paesaggi attirano i produttori occidentali che trovano in questo Paese australe location a basso costo, a condizione che venga impiegato personale locale e valorizzato l’indotto. Il film post-apocalittico ideato e diretto da George Miller, Mad Max Fury Road, è stato girato in gran parte nel deserto della Namibia. In particolare, la troupe ha lavorato nei dintorni di Swakopmund, la seconda città della Namibia: i letti asciutti dello Swakop river, i paesaggi aridi di Henties Bay e le spiagge surreali della Skeleton Coast, la Costa degli scheletri, sono servite da sfondo perfetto per la trama del film.

Un altro Paese davvero all’avanguardia è il Sud Africa. Qui il primo studio cinematografico — il Killarney Film Studios —, risale al 1915 e venne realizzato a Johannesburg dal magnate statunitense Isidore W. Schlesinger. Da oltre un decennio si è comunque registrato un significativo utilizzo di location e talenti sudafricani da parte di studi cinematografici internazionali. Produzioni statunitensi come Chronicle (2012), Avengers: Age of Ultron (2015), The Dark Tower (2017), Tomb Raider (2018), Escape Room (2019) e Bloodshot (2020) riflettono una tendenza crescente da parte delle grandi case internazionali a utilizzare Città del Capo, Johannesburg e altre località sudafricane per le loro produzioni cinematografiche. Da rilevare che in Sud Africa, come nel caso della Nigeria, del Kenya e di altri Paesi africani, si producono anche numerosi film e serie televisive con investimenti locali destinati al mercato panafricano, ma anche alla distribuzione internazionale e alle grandi piattaforme delle società extra africane. Una cosa è certa: siamo di fronte a un mondo, quello delle immagini, dei suoni e delle parole, che potrebbe segnare un percorso di riscatto per il continente africano. Padre Colombo ne è fermamente convinto. Egli infatti ritiene giustamente che l’intero areopago comunicativo africano, con l’avvento delle nuove tecnologie, rappresenti «una prateria dove l’evangelizzazione, vale a dire il seme della Parola, deve essere non solo gettato ma coltivato, guardando alle istanze delle giovani generazioni che anche nei Paesi più poveri utilizzano, attraverso le reti wi-fi, i propri dispositivi palmari per svago e conoscenza, accrescendo così i propri saperi».

di Giulio Albanese