Testimonianze
A Przemyśl gli aiuti della Caritas per le madri rifugiate

Una casa dopo l’orrore

 Una casa dopo l’orrore  QUO-280
07 dicembre 2022

«Vittoria», dice. Non una vittoria militare, ma «la vittoria di un mondo civile, democratico. Una vittoria di civiltà e non di crudeltà». Tatiana ride mentre esprime le speranze per il suo Paese, l’Ucraina, abbandonata sette mesi fa insieme ai figli David, 7 anni, e Mariana, 14. È una risata nervosa che lascia però presto il posto al pianto. Un pianto a dirotto che le sfigura il volto smagrito e pallido a causa della chemioterapia. L’ha intrapresa lo scorso anno ma, a causa del conflitto, ha dovuto interromperla. «Questo ha peggiorato il mio cancro», spiega. La donna ora è in cura in Polonia, a Przemyśl esattamente, dove ha trovato «casa» in una struttura gestita dalla Caritas a 15 km dal confine. “Casa Mamma-Bambino” si chiama. Con lei c’è la sorella, Anna, un figlio e il marito al fronte. Sono fuggite da Zaporizhzhia, dopo che il secondo «crudele» bombardamento russo ha distrutto quasi interamente la loro casa.

Attualmente vivono con altre sette famiglie in questa struttura che profuma di cibo cucinato e legno riscaldato. In tutto sono 22 persone sistemate in tre stanze, in due piani. Vengono da Kiev, Odessa, Mariupol e anche da città del Donetsk. Sono ortodosse, greco-cattoliche, cattoliche di rito latino: «Qui naturalmente non si guarda né alla provenienza, né all’appartenenza religiosa», spiega Margarita, coordinatrice della struttura. La maggior parte degli ospiti sono bambini: da Evgenia che l’11 dicembre compie un anno, fino a Luda che ne ha 16 e aiuta la nonna Ludmila a badare alle sorelle più piccole. La mamma medico è rimasta a Kyiv ad assistere i feriti. A questi piccoli profughi, ieri, un gruppo di giornalisti in missione in Polonia e Ucraina per un viaggio organizzato dalle rispettive Ambasciate presso la Santa Sede hanno portato pacchi di cioccolata e calendari di Avvento. Piccoli doni per non far inghiottire dall’orrore della guerra anche la tradizionale festa di San Nicola, patrono proprio dei bambini. «Yeah!», gridano due sorelline aprendo i regali su uno dei cinque letti ricoperti da pile, nella stanza che condividono con altre cinque persone.

Le mamme sorridono, tranne una. È in accappatoio, ha i capelli raccolti e lo sguardo vacuo. Si occupa solo della figlia Vira, un anno e mezzo, che sgambetta e tocca tutto, soprattutto i cellulari. «È scappata dalla guerra, ma anche dalle violenze del marito», spiega, sussurrando, una delle operatrici. «Segue un percorso di cure psicologiche». È uno dei servizi che la Casa offre, insieme a corsi di formazione per introdurre queste donne ferite dal dramma della guerra nel mondo del lavoro. C’è chi fa già la cassiera o la traduttrice. Chi invece resta poco tempo e poi raggiunge i parenti in altri Paesi. Il periodo di permanenza è variabile: «Da due giorni a dieci mesi. L’importante è garantire calore e accoglienza». Per questo, dopo la prima assistenza, le donne vengono lasciate libere di muoversi in casa: «Gestiscono loro il programma, sono padrone. Devono sentirsi a casa. Anche se in un altro mondo…».

da Przemyśl (Polonia)
Salvatore Cernuzio