Intervista a Mariella Enoc, presidente dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù

Il più bel regalo di Natale
è tornare a casa

 Il più bel regalo di Natale  è tornare a casa  QUO-275
01 dicembre 2022

«Per me il Natale è poter stare con i miei amici e la mia famiglia, anche in ospedale, perché so che i medici stanno facendo il possibile per farmi guarire». Sono le parole di Giulio, quindici anni, paziente dell’Ospedale Bambino Gesù che interpretano bene i sentimenti dei piccoli ricoverati nell’ospedale pediatrico di Roma in questo periodo di Avvento. Il tempo scorre lentamente per chi è in un letto d’ospedale, ancor di più per i bambini e i loro genitori. Natale è sinonimo di festa, di famiglie che si riuniscono, di ragazzini che giocano. In ospedale si sperimenta, invece, una separazione innaturale imposta dalla malattia che non fa che acuire questo desiderio di normalità. «Quando sei in ospedale — confida Simone, papà di Cecilia, 9 anni — sogni di tornare a casa insieme, di poter fare colazione insieme. Quando succede è un momento di straordinaria felicità». Al fianco di questi bambini e delle loro famiglie ci sono ogni giorno medici, infermieri e volontari. Anche per loro il periodo che precede il Natale è vissuto in modo particolare con l’impegno innanzitutto a far sì che i piccoli pazienti guariscano al più presto e possano trascorrere la degenza abbracciati dall’affetto dei propri cari e dal calore umano del personale medico. A sottolinearlo è il presidente dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, Mariella Enoc, che — in questa intervista con «L’Osservatore Romano» — confida le sue personali speranze per il Natale e si sofferma sull’importanza di una medicina non distaccata, che promuova una relazione empatica con chi soffre.

Siamo nella prima settimana di Avvento. Avvento significa attesa. Ovviamente per noi cristiani è l’attesa della nascita di Gesù. Anche per chi non ha il dono della fede è comunque un tempo dell’anno vissuto in modo particolare. Come si trascorre questo periodo in un contesto così particolare, che è quello dell’ospedale, come si vive in un ospedale pediatrico come il suo?

I bambini ricoverati, come tutti i bambini, aspettano con trepidazione il Natale. Noi cerchiamo di fare lentamente capire ai bambini cristiani che Natale è un compleanno importante. È il compleanno di Gesù che è un loro amico e che quindi bisogna festeggiare. I bambini non cristiani vivono questo senso di attesa, di festa che non ha una definizione come ce l’ha per gli altri però capiscono che si aspetta non soltanto un pacchetto, ma si aspetta qualcuno.

In questo periodo di Avvento e poi ovviamente a Natale, molti si offrono per portare doni ai bambini ricoverati, sicuramente avverrà anche qui al Bambino Gesù. Qual è secondo lei il regalo più grande che attendono questi bambini?

Il dono più grande è poter guarire, poter tornare a casa, e io prego veramente tutti di non portare doni all’Ospedale Bambino Gesù. I bambini di doni ne hanno tanti perché hanno le famiglie, ci siamo noi che li diamo alle famiglie perché li diano ai bambini. Quindi non è assolutamente necessario. Tramutino i doni in qualche cosa che aiuti la ricerca scientifica! In Brasile ho imparato un proverbio che mi piace moltissimo: «Quando ti avvicini a un povero, a un fragile, se hai le braccia piene di doni non lo potrai abbracciare e lui invece si aspetta un abbraccio». Questo è quello che i nostri bambini si aspettano.

Il Natale è un momento di gioia, anche di famiglie che si riuniscono. In ospedale si sperimenta invece una condizione di separazione a causa della malattia. Nella sua esperienza, come trascorrono le famiglie dei bambini ricoverati questo tempo così particolare dell’anno e cosa fate per rendere meno traumatico un Natale passato in ospedale?

Intanto nel nostro ospedale le famiglie possono stare vicino ai loro bambini. Anche in rianimazione un familiare può stare accanto al bambino e questa è una scelta che mi era stata molto contrastata ma poi in realtà si è capito invece l’aiuto che questa presenza dà ai bambini a lottare e a guarire. Quindi noi facciamo in modo che possano stare insieme. Inoltre aiutiamo le famiglie che vengono da lontano, che sono famiglie dove c’è solo la mamma o solo il papà, a entrare nel cerchio di tutte le altre famiglie così che in fondo si senta un sapore di famiglia allargata. Questo aiuta a non sentire la solitudine del posto vuoto a tavola a casa e aiuta chi è qua solo con un familiare a non sentirsi particolarmente solo perché fa parte comunque di una comunità.

Abbiamo parlato delle famiglie dei bambini ricoverati. L’ospedale non si può fermare mai: l’Avvento, il Natale è sempre un periodo di lavoro, di grande impegno e questo vale anche per gli infermieri, i medici, per tutto il personale medico. Cosa la colpisce di questi genitori, di queste famiglie? Perché anche il personale medico ha una famiglia e ovviamente nutre il desiderio di vivere il Natale insieme ai familiari mentre, a volte, proprio per il lavoro che svolge è portato ad essere qui…

Intanto chi sceglie questo lavoro conosce quale sarà la sua storia! Comunque, si fa sempre in modo nella turnistica che possano essere o a mezzogiorno o alla sera con le loro famiglie il giorno di Natale. Però in ospedale ci sono tanti imprevisti. C’è un organo, un cuore da andare a prendere: immediatamente, anche se è a casa, il medico che deve andare prepara l’équipe. E tutti, anche se sono a tavola, si rendono disponibili. Oppure arriva un caso difficilissimo per cui è necessario che il primario sia presente. Bene, il primario viene in ospedale. Non mi sono mai sentita dire da nessuno: «Però io ho rinunciato al pranzo di Natale». In questo ospedale non l’ho mai sentito.

Per milioni di bambini ucraini questo sarà un Natale terribile, segnato dalla paura, dal dolore. Tanti sono i bambini che dall’Ucraina sono arrivati al Bambino Gesù e che continuano ad arrivare. Alcuni sono ancora ricoverati qui. Come vivete questa situazione in ospedale, se vogliamo un’emergenza nell’emergenza quotidiana?

Abbiamo preso in carico circa 1800 di questi bambini. Alcuni con le famiglie, altri solo con un genitore o con un fratello e in questo momento quello che noi dobbiamo cercare di fare è riempirli di amore così da fargli in qualche modo dimenticare il male che hanno vissuto. Non ci sono doni che li possano compensare però devono sentire un amore vero, un amore non di facciata, devono sentire che veramente con loro c’è una comunicazione! Questo vale anche per le famiglie: il papà che è qui da solo con la bambina a cui è stato amputato il braccio, la mamma che è venuta con la famiglia... Loro sentono particolarmente la solitudine in questo momento a causa della guerra. Noi cosa facciamo per loro? Quello che facciamo per tutti, per i bambini di tutto il mondo: li facciamo sentire una famiglia. Soprattutto medici, infermieri, ciascuno di noi deve caricarli di amore. Loro lo sentono, lo percepiscono! Vengono da un’esperienza distruttiva. Una bimba ucraina per tre giorni non ha voluto neanche essere toccata, fissava il soffitto.

Papa Francesco è venuto a trovare questi bambini in ospedale nel marzo scorso…

Durante la sua visita, il Papa ha accarezzato un bambino che piangeva. È stato di una tenerezza straordinaria con questi bambini che hanno vissuto un trauma, come lo hanno vissuto tanti altri bambini di tante guerre che sono arrivati qua. Noi cerchiamo di dare loro il senso del calore familiare: l’amore si sente, si percepisce, quello vero. E questa è una cosa che si vive nell’ospedale, nella cura, nella guarigione. È ciò che si aspettano i bambini. In questi momenti ancora di più, fargli sentire questo amore.

Lei è presidente dell’Ospedale Bambino Gesù dal 2015. Cosa rappresenta per lei il Natale?

In questo ospedale, Natale è tutti i giorni, non perché si chiama Bambino Gesù ma perché tutti i giorni quando un bambino guarisce è come se rinascesse a una nuova vita. Quindi per me Natale è un po’ tutti i giorni! Il trapianto che è riuscito, il bambino con la malattia dismetabolica guarito. Ecco, ogni volta che c’è questo per me è Natale, per noi è Natale.

Tra le tante storie felici e inevitabilmente anche meno felici che lei ha conosciuto in questi anni ce n’è una che richiama il significato più autentico del Natale e che ci vuole condividere?

Di episodi ce ne sono tanti ma posso parlare di uno di questi giorni. Nel nostro centro di cure palliative — che mi ha rubato molto il cuore, l’ho voluto con tutte le mie forze! — è ricoverato un bambino che viene dallo Yemen. È stato accompagnato dal fratello, una storia complicatissima. Questo bambino ha un cancro al viso che lo sta distruggendo. L’intervento peggiorerebbe le cose. Quindi si stanno facendo delle cure palliative per lenirgli il dolore ma veramente è terribile da vedere. Io sono andata l’altro giorno e, dopo due mesi, era proprio peggiorato moltissimo e nel cercare di capire cosa lui desidera, mi ha chiesto di fare venire la sua mamma. In questi giorni stiamo facendo l’impossibile per riuscire a fare venire la mamma di questo bambino per Natale. Questo bambino non avrà una vita lunga: mi ha chiesto la mamma. Credo che questo mi rimarrà a lungo dentro e vorrei che anche le istituzioni ci aiutassero a fare tutto il possibile perché questa madre possa venire, stare vicino al suo bambino in questa ultima fase della sua vita.

di Alessandro Gisotti