Ricordo di Christian Bobin

Scrivere è rispondere
alla vita

 Scrivere è rispondere alla vita   QUO-271
26 novembre 2022

Christian Bobin desiderava che tutte le tombe nei cimiteri fossero accompagnate dalla pagina di un libro o di una poesia. E ora che il «grande regno della delicatezza» lo ha accolto, non è difficile ipotizzare quale frase o quale verso potrebbero essere incisi sulla sua lapide: molto probabilmente una citazione da Emily Dickinson. O dal poverello di Assisi. Oppure dal Vangelo.

Il 24 novembre lo scrittore e poeta francese si è spento all’età di 71 anni nella sua casa di campagna, in Borgogna. Un allontanamento dal mondo terreno, quello di Bobin, che non ha contraddetto il suo stile umile ma mai modesto. Era d’altronde questo che cantava nelle sue opere — a partire da Francesco e l’infinitamente piccolo (San Paolo, 1996), pubblicato in Francia trent’anni fa — e, cioè, il gusto delle cose semplici, la sacralità della vita attraverso i piccoli gesti e quelle azioni quotidiane (come la potatura di un albero, l’acqua ai fiori) che solo all’apparenza possono sembrare banali.

Ancora troppo poco conosciuto in Italia, dove la casa editrice AnimaMundi sta raccogliendo i suoi testi — meditativi e metafisici, a metà tra prosa e poesia —, Bobin ha tracciato, nel corso della sua esistenza, ritratti indimenticabili. Non solo quello citato sul Santo amante del Creato e di tutte le creature, ma anche l’altro sulla poetessa silenziosa di Amherst, racchiuso ne La dama bianca (AnimaMundi, 2022). Poi, ancora, sempre per lo stesso editore, Autoritratto al radiatore (2012), Folli i miei passi (in coedizione con Socrates, 2012), Sovranità del vuoto (2014), Consumazione — un temporale (in coedizione con Servitium, 2014), Mozart e la pioggia (2015), L’uomo del disastro (2015), La vita e nient’altro (2015), Resuscitare (2015), Più viva che mai (2017), La vita grande (2017), L’insperata (2018), La presenza pura (2019), Abitare poeticamente il mondo (2019), Lettere d’oro (2021), Illumina ciò che ami senza toccarne l’ombra (2022).

Si tratta di scritti luminosi, essenziali, dove una certa malinconia fa capolino insieme all’augurio che la gioia possa dimorare sempre. Vicini, per caratteristiche, alle opere di Rainer Maria Rilke, Jean Grosjean, Gerand Manley Hopkins e di Charles Peguy, parlano anche e soprattutto di silenzi. Di solitudini. «I momenti più luminosi della mia vita sono quelli in cui mi accontento di vedere il mondo apparire. Questi momenti sono fatti di solitudine e silenzio. Sono sdraiato su un letto, seduto a una scrivania o cammino per strada. Non penso più a ieri e domani non esiste. (...) Forse la solitudine e il silenzio non sono nemmeno indispensabili per degli istanti così puri. L’amore da solo basterebbe», scrive, non a caso, l’autore in Mozart e la pioggia; pagine contemplative della bellezza che ci circonda, che sempre più spesso siamo avvezzi a guardare ma non a vedere. Una bellezza che, poi, si concretizza per mezzo della scrittura, che per Bobin è qualcosa di miracoloso. Sempre nel testo poc’anzi citato si legge: «Scrivere è un modo di rispondere alla vita. Abbiamo sempre bisogno di rispondere a un dono con un altro dono, non per sdebitarci, ma per continuare a donare e ricevere, senza fine».

Non a caso un ulteriore dono di Bobin è pronto ad arrivare nelle nostre librerie. Lunedì la casa editrice sita nel cuore di Otranto riproporrà, infatti, Mille candele danzanti (2022, pagine 89, euro 12, traduzione di Sara Saorin), pubblicato in Italia per la prima volta nel 2008 da Camelozampa e oggi arricchito dall’introduzione di Eugenio Borgna. Un volume fatto di una miriade di immagini, di sequenze che, messe nero su bianco, nuovamente sono pronte a infondere speranza. «Per vedere bene una cosa bisogna toccare il suo contrario. Non hai mai saputo vedere diversamente: attraverso l’ombra arrivi alla luce. Attraverso l’indifferenza raggiungi l’amore». Fare tesoro dell’amaro — ci dice Bobin — perché possa trasformarsi in dolce. Perché quel mucchio di fango, per dirla alla Nietzsche, diventi oro; perché si possa essere migliori, scegliere di essere tali.

Ci sono due tipi di uomini, del resto, secondo l’autore. «Ci sarebbe l’uomo immobile dei lunghi viaggi d’affari. Ha un posto nel mondo. Viaggia per fare un tutt’uno con quel posto. Ne estrae le materie fredde, le lingue morte. La ragione, l’ambizione, la potenza. È a suo agio tanto nell’industria che nella morale, tanto nei suoi amori che nei suoi conti. Smorza tutte le differenze nella sua lingua. Può diffondere ovunque questa malattia che è lui per sé stesso. Può essere ovunque poiché lui è di ogni tempo. L’uomo d’affari è solo l’ultimo avatar, il più recente, dell’uomo livido. L’uomo livido è l’uomo sociale, è l’uomo utile, persuaso dalla propria utilità. È l’uomo dall’identità più debole, quella di mantenere le cose in essere, quella della menzogna eterna del vivere in società. E poi ci sarebbe un altro tipo d’uomo. Inutile, quello. Meravigliosamente inutile. Non è lui a inventare la carriola, le banconote, le calze di nylon. Non inventa mai niente. Non aggiunge né toglie nulla al mondo: lo lascia. Scopre di esserne stato abbandonato, è la stessa cosa. Lo si scorge qua o là. Sospinge davanti a sé il gregge dei suoi pensieri. Sogna in tutte le lingue. Visibile da lontano. È come quella gente del deserto, quegli uomini blu (...). Lo si scorge qua o là, nelle rivolte che ispira, nelle fiamme che lo divorano. Nei libri che scrive. È per vederlo che leggi. È per le ore nomadi, per la brezza di una frase sotto le tappezzerie dell’inchiostro».

Dunque, che tipo di persona scopriamo di essere diventati? Bobin, sul punto, ci apre gli occhi. Oggi, che è di un altro Cielo, lo fa ancora di più poiché, parafrasandolo, i morti devono necessariamente essere presenti nelle nostre vite. Proprio come (dovrebbero) i vivi.

di Enrica Riera