Ottant’anni di grazia

Auguri, Mr. Scorsese!

SS. Francesco - Istittuto Augustinianum - Colloquio Intergenerazionale  23-10 - 2018
17 novembre 2022

New York. Il 3 marzo 2016 suono il campanello a casa Scorsese: è una giornata fredda, ma luminosa. Sono le 13,00. Vengo accolto in cucina, come in famiglia. La persona che mi fa entrare mi chiede se voglio un buon caffè. «Italiano», precisa. Accetto. Infreddolito. Sono arrivato un po’ in anticipo e ho preferito attendere facendo il giro dell’isolato. L’idea di un caffè caldo — e italiano — mi attira. Ad accogliermi in soggiorno è la moglie di Martin, Helen. Ho una forte sensazione di casa. Parliamo a lungo prima dell’arrivo del marito, che voglio intervistare per La Civiltà Cattolica. Siamo seduti sullo stesso divano.

Arriva Martin con passo svelto e col sorriso accogliente. Parliamo subito delle nostre radici comuni. Siamo in qualche modo «paesani». Sa già che io sono di Messina. Lui mi dice che è di Polizzi Generosa, provincia di Messina. O meglio: lo era suo padre. Ma per lui è chiaro che le sue radici sono là. Polizzi Generosa ha dato i natali a Giuseppe Antonio Borgese, uomo di pensiero, letterato e politico; al cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, segretario di Stato di Leone xiii , e quasi eletto Pontefice.

Ma non parliamo di loro. Ricordiamo invece la sua vita da figlio di immigrato nei quartieri di New York, la sua vita da chierichetto. Ne esce un miscuglio di legami di sangue, violenza e sacro. I ricordi da chierichetto in chiesa si fondono con quelli di ragazzino che, inconsapevolmente, fa della strada il suo primo set cinematografico: quello della sua immaginazione e dei suoi sogni.

Martin ha l’asma sin da ragazzino. Mi viene in mente l’operazione ai polmoni che Papa Francesco ha subito da giovane. Mi sono chiesto come incida sulla visione della vita il fatto di avere il respiro corto. Scorsese me lo dirà più tardi, in una conversazione a distanza in piena pandemia, nella tarda primavera del 2020, in un’altra intervista: «Mi sono ritrovato solo, nella mia stanza, a vivere da un respiro all’altro…», mi dice della sua clausura forzata. Un ricordo che lo ha certamente riportato alla giovinezza, quando guardava spesso il mondo dalla sua finestra: «Il ricordo di avere guardato in strada e di avere visto tante cose, alcune belle e altre orribili, e alcune indescrivibili, per me è centrale», mi disse. Il suo cineocchio è la finestra di casa, luogo di elaborazione delle azioni e delle vicende umane, quelle che vede per strada.

«Quando ero ragazzo, ero davvero fortunato, perché avevo un prete straordinario, padre Principe. Da lui ho imparato tantissimo, e tra l’altro la pietà con sé stessi e con gli altri. Certo, qualche volta lui incarnava la figura del severo precettore morale, ma il suo esempio era qualcosa di molto diverso. Quell’uomo era una vera guida. Magari parlava severamente, ma non mi ha mai forzato a fare qualcosa. Ti guidava. Ti ammoniva. Ti persuadeva. Aveva un amore davvero straordinario» mi dice.

Forse parlando con me, prete, Scorsese ha in mente padre Principe, siciliano come lo sono io. E così capisco che per lui la religione non è degli angeli, ma degli uomini. Trionfa la grazia in ciò che mi dice. E i suoi occhi la rivelano con guizzi. «Sono circondato da una forma di grazia», mi dice con un sorriso. E guarda la moglie. Ma la grazia di cui mi parla sarebbe del tutto incomprensibile senza la polvere e le ombre. In piena pandemia quando sentiva che «l’aria che ci circonda, l’aria che ci sostenta avrebbe potuto ucciderci», mi dice: «Essere. Respirare. Qui. Adesso. Tutto questo non è grazia?».

«La grazia nel territorio del diavolo»: questa espressione di Flannery O’Connor può riassumere l’opera di Scorsese, credo. Mi diceva che nel suo libro Absence of Mind, Marilynne Robinson ha scritto qualcosa che lo ha molto colpito: «Siamo brillantemente creativi e altrettanto brillantemente distruttivi». Questo rende l’uomo inspiegabile, irriducibile a spiegazioni: è «il mistero grande, stupefacente, del nostro mero esserci, del vivere e morire».

Quando era chierichetto, uscendo per strada dopo la fine della Messa si chiedeva: «Com’è possibile che la vita vada avanti come se niente fosse accaduto? Perché non è cambiato niente? Perché il mondo non viene scosso dal corpo e dal sangue di Cristo?».

Perché il mistero della morte e resurrezione non cambia il mondo? È una domanda lancinante, mistica. Come ha fatto Scorsese a portarsela dietro per i decenni della sua vita? Indubbiamente grazie al cinema, da Toro scatenato a Silence, passando per L’Ultima tentazione. Per quest’ultimo film è stato a Gerusalemme: «Mi hanno portato nella chiesa del Santo Sepolcro — mi dice —. Ci sono stato con il produttore, Robert Chartoff, scomparso di recente. Sono stato sulla tomba di Cristo. Mi sono inginocchiato, ho detto una preghiera. Quando sono uscito, Bob mi ha chiesto se mi sentissi un po’ diverso. Ho risposto di no, che ero soltanto impressionato dalla geografia del luogo». Risale in aereo, un monomotore e… «improvvisamente», mi dice, «ho avvertito una sensazione totale di amore…». Ecco la risposta alla domanda di allora: «qualcosa è cambiato». Esco da casa Scorsese che sono le 3 e mezza, e fuori fa meno freddo di quando sono entrato. Costeggio a piedi  Central Park per tornare a casa.

Rivedo Mr. Scorsese il 25 novembre a Roma. Sono le 5 del pomeriggio. Arrivo al suo albergo in anticipo e mi godo il tramonto in un cielo che sembra dipinto da un impressionista. Varco la porta dell’Hotel giusto alcuni istanti prima di Helen che rientra. Quando la vedo, ho come l’impressione di non averla mai lasciata. Ci sediamo a prendere un tè. Lo prendo io, in realtà: lei prende un bicchiere d’acqua. Parliamo, e quasi mi dimentico che ero lì per il marito. «Sta arrivando», mi dice. E io: «Chi?».

Mi alzo e vado incontro a Mr. Scorsese, che arriva sempre col suo abito scuro, ma senza occhiali, che tiene in mano. La sua stretta è calda come il suo sorriso. Ci sediamo e con lui arrivano pane, grissini, olio, sale, bocconcini e il suo caffè americano con latte. Mangiamo tutti qualcosa. E riprendiamo la conversazione seduti su un tavolo all’angolo dell’elegante ma sobria sala messa a nostra disposizione. La nostra conversazione è a tre.

Riprendiamo il discorso sulla grazia. Mi dice che nel frattempo ha avuto un’operazione agli occhi a Indianapolis, e che ha dovuto trascorrere molto tempo senza poter leggere. Allora si è procurato audiolibri e ha ascoltato Dostoevskij a più non posso. Mi parla dei Karamazov. E di come abbia goduto e lottato con la sua fantasia ascoltando. Io gli dico che Papa Francesco ama anche lui Dostoevskij. «Interessante», mi dice. «E che cosa gli piace, in particolare?», mi chiede. Gli dico che il romanzo a lui più caro è  Memorie del sottosuolo. Lui ha un sobbalzo. «Ma è anche il mio!», esclama. «Taxi driver  è il mio Memorie del sottosuolo!». Riprendo i nostri dialoghi sulla grazia nel giugno successivo, e lì gli chiedo se avesse voglia di fare una riflessione sulla sua vita (e in particolare i suoi errori), parlando ai giovani che si affacciano alla vita. Accettò e diede il suo contributo a un libro dal titolo La saggezza del tempo e alla serie Netflix Stories of a generation, facendosi intervistare da sua figlia: «Noi che giriamo film, non lo facciamo per noi stessi, ma per rendere giustizia alla vita che ci circonda e per rispondere alla domanda su cosa sia l’essere umano», affermò.

Lo vedo ancora una volta a cena a metà febbraio del 2019, proprio prima del lockdown. Quella sera parliamo a lungo di Bruce Springsteen, quello di Badlands e di The Rising. Quando esco a sera tardi mi torna in mente la sua struggente New York City Serenade: «It’s midnight in Manhattan, this is no time to get cute…», e mi commuovo.

Avevamo parlato dell’importanza del dramma, dei romanzi drammatici, di quelli che rispecchiano la vita e non le idee, dei ricordi di strada. Mi aveva detto che per strada ha imparato a guardare. E girando i film, continuava a imparare a guardare. «Anche questa è una grazia», mi aveva detto: «Per me, tutto si riduce alla questione della grazia. La grazia è qualcosa che avviene nel corso della vita. Viene quando non te l’aspetti». Auguri, Mr. Scorsese!

di Antonio Spadaro