L’umana inquietudine e le parole della fede di fronte all’improvvisa morte di un diciottenne

Lo sgomento e la sete di vita

 Lo sgomento e la sete di vita  QUO-260
14 novembre 2022

Le provocazioni fanno bene. Ci scuotono e ci interrogano. Lasciarsi inquietare è un dono che il credente deve saper invocare: «Finché siamo inquieti si può stare tranquilli» scriveva lo scrittore Julien Green.

Lo confesso. Quando, qualche settimana fa, si diffuse la notizia della morte del diciottenne Francesco Valdiserri, ucciso da un’auto a Roma, il cuore mi si è fermato. Immediatamente mi venne da pensare: «E se succedesse a uno dei tuoi quattro figli? Che diresti e faresti?». La fede cristiana mi sosterrebbe? Non lo so. Lo ammetto.

So però che quello che Antonio Polito ha scritto su Sette riguardo ai funerali di Francesco mi ha toccato nel profondo. Come uomo, come cristiano. Scrive Polito che alle esequie di quel giovane, figlio di colleghi e amici, «abbiamo cercato insieme un senso per una fine senza senso». E in questo è stata decisiva la parola del celebrante, don Maurizio Spreafico, che ha lenito con sapienza il dolore dei presenti, ricordando «lo straordinario trionfo della vita che è il cristianesimo» e affermando che «quel sabato mattina Francesco ci stava guardando dal Paradiso».

Ed è la provocazione successiva di Polito che va colta, purificandone la capacità interrogativa: «In verità proprio il nostro tempo, così scristianizzato, dovrebbe essere il più adatto al messaggio cristiano. È nei deserti della secolarizzazione che abbiamo più bisogno della promessa di vita eterna». Già. Il cristianesimo, l’annuncio che la Chiesa porta avanti da duemila anni, con le proprie fatiche e difficoltà, coi limiti umani dei propri membri e le infedeltà che ne sfigurano la vocazione, costituisce appunto questo tentativo: ricordare a ogni persona che il regno di Dio è già qui, in mezzo a noi. E che la vita eterna non è (solo) vita dopo la morte. Ma è vita piena, qui e adesso. È vita fatta di dono, gratuità, comunione, desiderio, coraggio. Vita eterna, vita piena. Perché donata.

È la vita dei missionari che per decenni vivono nei posti più sperduti della terra per riconoscere che Dio lì è già all’opera. È la vita di genitori che lottano quotidianamente contro «la globalizzazione della superficialità» (Adolfo Nicolás), trasmettendo ai figli il gusto bello di un vivere che non si misura sull’avere, ma sull’essere. È la vita di quanti hanno donato la propria esistenza in un silenzio orante, chiusi in un monastero. È la vita di un padre che abbraccia e accudisce teneramente la figlia disabile (non credo che esista immagine più bella per pensare chi sia Dio per me), è la vita di una sposa che sa riabbracciare il marito dopo anni di infedeltà. «Santi dalla porta accanto», li ha chiamati più volte Papa Francesco, facendo eco allo scrittore Joseph Malègue.

È questa vita qui, una vita pasquale perché segnata dall’assimilazione alla morte e alla resurrezione di Cristo, ciò di cui il nostro mondo ha fame e sete. Polito scrive con una punta di amarezza: «Quanti preti hanno il coraggio, davanti a una bara, di cercare un senso nella morte come ha fatto don Maurizio, invece di appiccicare burocraticamente due parole di circostanza?». Io credo che preti come don Maurizio siano tanti e tanti. E siano tanti i cristiani che testimonino che la morte non è l’ultima parola nella vita di ciascuno.

«L’amore conta, conosci un altro modo per fregar la morte?» canta Luciano Ligabue. Sì, è l’amore che vince la morte. Ed è l’amore che ci dice che non tutto è finito, quando siamo davanti a una bara.

Antonio Polito va ringraziato. Perché ci ha sbattuto davanti un’implicita domanda: «Voglio vedere Gesù», come dissero quei greci agli apostoli. Tanti e tante chiedono ai credenti di vedere Gesù, la vita della vita, colui che ha messo Ko la morte per sempre. L’unico che ha messo la parola «fine» alla fine. L’ha fatto dall’alto di una croce, non schivando i problemi né sottraendosi all’assurdo.

Polito ci ha ricordato quel che già San Paolo scriveva: «Se Cristo non è risorto dai morti, vana è la nostra fede». A chi crede spetta il compito di testimoniare, con un’esistenza di gratuità, che l’eterno è già qui, adesso, in mezzo a questo mondo inquieto.

di Lorenzo Fazzini