Il magistero

 Il magistero  QUO-251
03 novembre 2022

Domenica 30 ottobre

Incrocio
di sguardi

Oggi il Vangelo narra l’incontro tra Gesù e Zaccheo, capo dei pubblicani nella città di Gerico (Lc 19, 1-10). Al centro di questo racconto c’è il verbo cercare.

Stiamo attenti: Zaccheo «cercava di vedere chi era Gesù» e Gesù, dopo averlo incontrato, afferma: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Soffermiamoci sui due sguardi che si cercano: lo sguardo di Zaccheo che cerca Gesù e lo sguardo di Gesù che cerca Zaccheo.

Zaccheo [è] un pubblicano, cioè uno di quegli ebrei che raccoglievano le tasse per conto dei dominatori romani — un traditore della patria — e approfittavano di questa loro posizione.

Per questo era ricco, odiato da tutti e additato come peccatore... «Era piccolo di statura» e questo forse allude anche alla sua bassezza interiore, alla vita mediocre, disonesta, con lo sguardo sempre rivolto in basso.

Eppure Zaccheo vuole vedere Gesù. Qualcosa lo spinge. «Corse avanti — dice il Vangelo — e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro».

Zaccheo, l’uomo che dominava tutto, va sulla strada del ridicolo per vedere Gesù.

Pensiamo cosa accadrebbe se, per esempio, un ministro dell’economia salisse su un albero per guardare un’altra cosa: rischia la beffa.

Zaccheo ha rischiato la beffa per vedere Gesù, ha fatto il ridicolo.

Nella sua bassezza, sente il bisogno di cercare un altro sguardo, quello di Cristo. Ancora non lo conosce, ma aspetta qualcuno che lo liberi della sua condizione — moralmente bassa —, che lo faccia uscire dalla palude in cui si trova.

Questo è fondamentale: Zaccheo ci insegna che, nella vita, non è mai tutto perduto. Per favore, mai tutto è perduto!

Sempre possiamo fare spazio al desiderio di ricominciare, di ripartire, di convertirci. E questo è quello che fa Zaccheo.

Decisivo in questo senso è il secondo aspetto: lo sguardo di Gesù.

Cercare
chi è perduto

Egli è stato inviato dal Padre a cercare chi si è perduto; e quando arriva a Gerico, passa proprio accanto all’albero dove sta Zaccheo.

Il Vangelo narra che «Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”».

È un’immagine molto bella, perché se Gesù deve alzare lo sguardo, significa che guarda Zaccheo dal basso.

Questa è la storia della salvezza: Dio non ci ha guardato dall’alto per umiliarci e giudicarci, no; al contrario, si è abbassato fino a lavarci i piedi, guardandoci dal basso e restituendoci dignità.

Così, l’incrocio di sguardi tra Zaccheo e Gesù sembra riassumere l’intera storia della salvezza.

L’umanità con le sue miserie cerca la redenzione, ma anzitutto Dio con misericordia cerca la creatura per salvarla.

Ricordiamoci questo: lo sguardo di Dio non si ferma mai al nostro passato pieno di errori, ma guarda con infinita fiducia a ciò che possiamo diventare.

Se a volte ci sentiamo persone di bassa statura, non all’altezza delle sfide della vita e tanto meno del Vangelo, impantanati nei problemi e nei peccati, Gesù ci guarda sempre con amore.

Come con Zaccheo ci viene incontro, ci chiama per nome e, se lo accogliamo, viene a casa nostra.

Allora possiamo chiederci: come guardiamo a noi stessi? Ci sentiamo inadeguati e ci rassegniamo, oppure proprio lì, quando ci sentiamo giù, cerchiamo l’incontro con Gesù?

E poi: che sguardo abbiamo verso coloro che hanno sbagliato e faticano a rialzarsi dalla polvere dei loro errori?

È uno sguardo dall’alto, che giudica, disprezza, che esclude?

Ricordiamoci che è lecito guardare una persona dall’alto in basso soltanto per aiutarla a sollevarsi: niente di più.

Soltanto in questo è lecito guardare dall’alto in basso.

Ma noi cristiani dobbiamo avere lo sguardo di Cristo, che abbraccia dal basso, che cerca chi è perduto, con compassione.

Questo è, e dev’essere, lo sguardo della Chiesa, sempre, lo sguardo di Cristo, non lo sguardo condannatore.

Beatificazione in Colombia

Ieri a Medellín, in Colombia, è stata beatificata Maria Berenice Duque Hencker, fondatrice delle Piccole Suore dell’Annunciazione. La sua lunga vita, conclusa nel 1993, l’ha spesa tutta al servizio di Dio e dei fratelli, specialmente i piccoli e gli esclusi.

Il suo zelo apostolico, che la spinse a portare il messaggio di Gesù oltre i confini del suo Paese, rafforzi in tutti il desiderio di partecipare, con la preghiera e la carità, alla diffusione del Vangelo nel mondo.

(Angelus in piazza San Pietro)

Lunedì 31

Con
san Francesco fino
alle periferie

Sono contento di incontrarvi in prossimità dell’ottavo Centenario Francescano (2023-2026): si preannuncia come un pellegrinaggio che dalla Valle santa reatina, passando per La Verna, giungerà ad Assisi, dove tutto ha avuto inizio.

Quando ho scelto di chiamarmi Francesco sapevo di far riferimento a un santo popolare, ma anche tanto incompreso.

Infatti, Francesco è l’uomo della pace, della povertà, l’uomo che ama e celebra il creato; ma qual è la radice di tutto questo, qual è la fonte? Gesù.

È un innamorato di Cristo, che per seguirlo non ha paura di fare il ridicolo ma va avanti.

La sorgente di tutta la sua esperienza è la fede. Francesco la riceve in dono davanti al Crocifisso, [che] gli svela il senso della vita e della sofferenza umana.

E quando Gesù gli parla nella persona del lebbroso, lui sperimenta la grandezza della misericordia di Dio e la propria condizione di umiltà.

Per questo, pieno di gratitudine e di stupore, il Poverello passava ore con il suo Signore e diceva: “Chi sei tu? Chi sono io?”.

Da questa fonte riceve in abbondanza lo Spirito Santo, che lo spinge a imitare Gesù e seguire il Vangelo alla lettera.

Francesco ha vissuto l’imitazione di Cristo povero e l’amore per i poveri in modo inscindibile, come le due facce di una stessa medaglia.

Il prossimo Centenario francescano sarà una ricorrenza non rituale, se saprà declinare insieme l’imitazione di Cristo e l’amore per i poveri.

E questo sarà possibile anche grazie all’atmosfera che si sprigiona dai diversi “luoghi” francescani, ciascuno dei quali possiede un carattere peculiare, un dono fecondo che contribuisce a rinnovare il volto della Chiesa.

La prima tappa, in ordine cronologico (1223), è Fontecolombo, presso Rieti.

Prima tappa a motivo della Regola e insieme a Greccio, luogo del Presepe. Si tratta di un invito potente a riscoprire nell’incarnazione di Gesù.

Tale scelta fondamentale dice che l’uomo è la “via” di Dio e, di conseguenza, l’unica “via” della Chiesa. Lo esprime con parole memorabili la Gaudium et spes.

La Verna con le stigmate (1224) rappresenta «l’ultimo sigillo» — come dice Dante (Paradiso, xi, 107) — che rende il Santo assimilato al Cristo crocifisso e capace di penetrare dentro la vicenda umana, radicalmente segnata da dolore e sofferenza.

San Bonaventura scriverà che «la carne santissima» di Francesco, «crocifissa insieme con i suoi vizi», trasformata «in nuova creatura, mostrava agli occhi di tutti, per un privilegio singolare, l’effigie della Passione di Cristo e, mediante un miracolo mai visto, anticipava l’immagine della resurrezione».

Infine, Assisi (1226), con il Transito di Francesco alla Porziuncola, svela del cristianesimo l’essenziale: la speranza della vita eterna.

Non è un caso che la tomba del Santo, collocata nella Basilica Inferiore, sia divenuta nel tempo la calamita, il cuore pulsante di Assisi: segno inequivocabile della presenza di colui la cui «mirabil vita / meglio in gloria del ciel si canterebbe» (Paradiso, xi, 95-96).

Dopo otto secoli, San Francesco resta comunque un mistero. Così come resta intatta la domanda di fra’ Masseo: «Perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti?».

Per trovare una risposta occorre mettersi alla scuola del Poverello, ritrovando nella sua vita evangelica la via per seguire le orme di Gesù.

In concreto significa ascoltare, camminare e annunciare fino alle periferie.

Ascoltare

Francesco, davanti al Crocifisso, sente la voce di Gesù. E il giovane risponde con prontezza e generosità a questa chiamata: riparare la sua casa.

Si rende conto che non si trattava di fare il muratore e riparare un edificio fatto di pietre, ma di dare il suo contributo per la vita della Chiesa; si trattava di mettersi a servizio della Chiesa, amandola e lavorando perché in essa si riflettesse sempre più il Volto di Cristo.

Camminare

Francesco è stato un viandante mai fermo; ha attraversato a piedi innumerevoli borghi e villaggi, non facendo mancare la sua vicinanza alla gente e azzerando la distanza tra la Chiesa e il popolo.

Questa medesima capacità di “andare incontro”, piuttosto che di “attendere al varco”, è lo stile di una comunità cristiana che sente l’urgenza di farsi prossima piuttosto che ripiegarsi su sé stessa. Questo ci insegna che chi segue san Francesco deve imparare a essere fermo e camminante: fermo nella contemplazione, nella preghiera, e poi andare avanti, camminare nella testimonianza, la testimonianza di Cristo.

Annunciare

Infine, annunciare fino alle periferie. Ciò di cui tutti hanno bisogno è giustizia, ma anche fiducia.

Solo la fede restituisce a un mondo chiuso e individualista il soffio dello Spirito. Con questo supplemento di respiro le grandi sfide presenti, come la pace, la cura della casa comune e un nuovo modello di sviluppo potranno essere affrontate, senza arrendersi ai dati di fatto che sembrano insuperabili.

(Al Coordinamento ecclesiale per l’ viii centenario francescano)

Incontro
ascolto, parola

Il venticinquesimo di fondazione è una ricorrenza che invita a rendere grazie per la felice intuizione di costituire, con il sostegno della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana, un’organizzazione che mettesse in rete varie associazioni nazionali che operano nel campo della comunicazione.

I processi comunicativi cambiano continuamente e velocemente, e questo richiede un “di più” di progettualità e visione.

Coordinare

È un obiettivo nobile mettere insieme più realtà per raggiungere un fine ben preciso. Per chi? Per cosa? Sono gli interrogativi che aiutano a definire meglio l’impegno quotidiano per una buona comunicazione.

Coordinare non è un’attività semplice, richiede pazienza, visione, unità d’intenti e, soprattutto, la valorizzazione delle singole identità associative, che vanno poste a servizio dell’insieme.

Occorre far fruttificare i talenti e le competenze a beneficio di tutti, a servizio della Chiesa in Italia.

Il cammino compiuto vi offre già un buon bagaglio di esperienza per poter ulteriormente migliorare il coordinamento.

Cambiamento

Più volte abbiamo osservato che non bisogna temere di lasciarsi interpellare dalle sfide e dalle opportunità che il tempo presente propone.

Dovreste essere esperti di cambiamento! Infatti, occupandovi di comunicazione, sapete benissimo come le innovazioni tecnologiche stiano accelerando i processi e i passaggi generazionali.

Il cambiamento, per essere affrontato e gestito in maniera fruttuosa, richiede una buona capacità educativa e formativa.

Vi invito a guardare, in modo particolare, alle nuove generazioni e a individuare i percorsi più adatti per stabilire con esse contatti significativi.

Cambiare non significa assecondare le mode del momento, ma convertire il proprio modo di essere e di pensare, a partire dall’atteggiamento di stupore di fronte a ciò che non muta eppure è sempre nuovo!

Stupore che è l’antidoto contro l’abitudine ripetitiva e l’autoreferenzialità.

L’abitudine è ripetitiva, e l’autoreferenzialità ti fa guardare a te stesso, così, allo specchio, per guardare te.

“a-b-c”
del buon
comunicatore

Il terzo obiettivo è un trittico: incontro, ascolto e parola... una sorta di “a-b-c” del buon comunicatore, perché è la dinamica che sta a fondamento di ogni buona comunicazione.

Anzitutto, l’incontro con l’altro: significa aprire il proprio cuore, senza finzioni, a chi si ha davanti.

L’incontro è il presupposto della conoscenza. Se non c’è l’incontro, non c’è comunicazione.

Ma perché ci sia incontro ci vuole la sincerità. Fare finta di incontrarsi è non incontrarsi, e questo è brutto.

Poi viene l’ascolto. Molto spesso ci accostiamo agli altri con le nostre convinzioni, fatte di idee preconfezionate, e rischiamo di rimanere impermeabili alla realtà di chi abbiamo di fronte.

Invece, si tratta di imparare a fare silenzio, prima di tutto dentro di sé, e a rispettare l’altro: rispettarlo non formalmente, ma effettivamente, ascoltandolo, perché ogni persona è un mistero.

L’ascolto è l’ingrediente indispensabile perché ci sia un dialogo vero.

Solo dopo l’ascolto, arriva la parola. La parola, uscita dal silenzio e dall’ascolto, può diventare annuncio, e allora la comunicazione apre alla comunione.

Incontrare, ascoltare e poi parlare. Il vostro lavoro sia sempre guidato da queste azioni, ponendo sempre l’attenzione ai sostantivi, cioè alle persone, più che agli aggettivi che distraggono.

Quando si aggettiva si perde la sostanzialità della cosa.

Questa stessa dinamica può imprimere anche una svolta per le diverse conflittualità che sembrano voler fagocitare questo tempo.

La Chiesa, anche in Italia, sta compiendo un cammino sinodale, un processo inserito in quello avviato lo scorso anno a livello universale, e che proseguirà fino al 2024.

Al di là della scansione temporale, camminare in modo sinodale significa vivere appieno l’ecclesialità. Proprio come ha insegnato il Concilio Vaticano ii, che sessant’anni fa stava muovendo i primi passi.

Vi esorto a portare il vostro specifico contributo a questo cammino della Chiesa in Italia.

Come associazioni nazionali siete luoghi in cui ogni giorno concetti e teorie si misurano con la fatica e la speranza delle donne e degli uomini.

Questa fraternità di vita può aprire una finestra importante in un tempo di grandi conflittualità.

Possiate essere, nel vostro impegno quotidiano, testimoni e tessitori di comunione.

Vi affido a san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e dei comunicatori, e al beato Carlo Acutis, che mostra quanto sia importante essere creativi, essere geniali nel mondo della comunicazione digitale, non ripetitivi.

(Al Coordinamento delle associazioni
per la comunicazione - Copercom
)