Voci di donne, giochi di bambini e sapori etnici

A “Casa di Giorgia”

 A “Casa di Giorgia”   ODS-004
05 novembre 2022

È un pomeriggio d’autunno quando, varcando la soglia di “Casa di Giorgia” sulla via Laurentina, vengo immersa da un intreccio di voci di bambini e di mamme, tutte provenienti da un cortile a cielo aperto. Un grande tavolo al centro, sedie attorno, giochi sparsi e un odore di cucina etnica che mi invita a fermarmi. In mezzo a loro, sorridenti e indaffarati, giovani operatori, che a mala pena distinguo in questo vivace quadro familiare.

Gli onori di casa sono fatti dal coordinatore di questo centro di accoglienza per donne rifugiate, Giuseppe Coletta, che con l’affabilità di chi si occupa di un ambiente casalingo, mi trasmette la bellezza di questo importante progetto. “Casa di Giorgia” è uno dei centri collettivi gestiti dal Centro Astalli in convenzione con Roma Capitale, nell’ambito del progetto sai (Sistema di Accoglienza e Integrazione finanziato dal Ministero dell’Interno), ma la sua peculiarità è proprio nel far sentire, a chi ne fa parte, che non si tratta di una struttura che offre un servizio, bensì di una vera e propria casa.

È presto detto, perché nel giro di pochi minuti, nella stanza dove si svolge il nostro incontro, due bimbi si nascondono sotto il tavolo e poi una di loro chiede a Giuseppe, in modo insistente, con un grande libro in mano: «Mi leggi una storia?». Giuseppe mi spiega che questo è il suo ufficio e con sorriso soddisfatto afferma: «Qui per loro, ogni ambiente è casa, non fanno distinzione. Se mi vengono a cercare, è per parlare di problemi che insieme possiamo affrontare, e questo non è un elemento scontato».

Chiedo come sia possibile che una trentina di donne, provenienti da culture e paesi distanti che portano così tante ferite, possano vivere una dimensione tale, in così poco tempo. Mi risponde: «Tutto è nel dialogo. La maggior parte di loro ha combattuto per arrivare qui. Facciamo capire loro, attraverso parole e gesti concreti, che qui possono vivere un’alternativa, possono recuperare la fiducia spezzata, possono esprimersi dando sfogo a ciò che prima non potevano raccontare. Ogni giorno costruiamo insieme, diventiamo loro complici, ci mettiamo in discussione e nello stesso tempo ci coinvolgiamo, come ogni famiglia che si rispetti. Ciò a cui puntiamo è rendere il loro ordinario, straordinario».

Mi faccio raccontare cosa succede il primo giorno che arrivano e qual è per lui un evento che definisce straordinario. Dopo aver riflettuto, senza perdere troppo tempo mi dice: «Il primo giorno è quello dello smarrimento. Dopo un brevissimo colloquio con gli operatori, non siamo noi a presentare la casa, ma sono le altre donne che vivono qui a raccontare cosa succede. Fanno loro in effetti, il vero primo colloquio con la nuova accolta. Vogliamo che siano loro a dare la prima impressione, a raccontare come si vive qui. È la complicità che creano tra di loro che garantisce il loro sentirsi al sicuro, il far sentire tutta l’umanità di cui necessitano». Poi, ripensando ad una storia che sa di straordinario, mi racconta di Alima, una donna afghana, oramai di una certa età e con diversi problemi motori, che ha vissuto la sua vita circondata dalle attenzioni della sua famiglia. Arrivata qui in Italia, non c’era nessuno che le potesse dedicare così tante cure e non poteva certo riceverle in un centro d’accoglienza. Inoltre, Giuseppe mi spiega che le diverse provenienze culturali e razziali delle donne rifugiate non sempre facilitano l’integrazione, piuttosto possono creare distanza e a volte difficoltà. Alima non voleva dormire con le altre della casa e così rimane la prima notte fuori. Questo succede per altre due notti, non usufruendo neanche del bagno. Il terzo giorno, arriva Benny, una giovane ragazza congolese che ormai vive fuori dal centro, ma viene a dare un aiuto a coloro che hanno problemi di deambulazione. La guarda e la chiama zia, e dopo averla accompagnata in bagno si occupa di lei, l’aiuta a lavarsi e la convince a dormire nel suo letto. Alima, oramai, è diventata parte della casa.

Per finire, domando a Giuseppe, dove trovano la forza quando tutto sembra andare perduto. Mi risponde: «Nei volontari. In questa casa collaborano circa 20 volontari e sono loro che, provenendo dall’esterno, ogni giorno, ci incoraggiano ad andare avanti, aiutandoci a vedere quanto bene stiamo costruendo. Ci ricordano che il modo migliore per andare avanti è essere presenti e non mettere niente da parte».

Usciamo dalla stanza, fagocitati dal vociare della casa e mi fermo a guardarle in quel cortile, sedute attorno al tavolo, mentre ridono, scherzano, si sistemano i capelli; sono donne che provengono da terre che urlano a causa della guerra. Qui imparano che ognuna di loro ha una voce e può essere accolta, che il loro dolore si può trasformare in insegnamento e che insieme possono fabbricare mattoni di speranza.

di Giuditta Bonsangue