DONNE CHIESA MONDO

L’intervista
Le Figlie della Carità oggi, parla la superiora generale

Sfida per i diritti umani

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05 novembre 2022

Quando il 25 marzo 1642, festa dell'Annunciazione, Luisa di Marillac e le sue poche compagne emisero privatamente (l’approvazione della confraternita è del 1646) i tre voti di povertà, obbedienza e castità ne aggiunsero un quarto, specifico della compagnia: servire i poveri.

La compagnia, che era stata fondata nel 1633 da Vincenzo de Paoli e Luisa di Marillac, in origine era infatti detta delle Serve dei poveri della Carità, e fu la prima di donne in abito secolare e di vita comune dedite a opere di assistenza domiciliare istituita nella Chiesa cattolica.

Oggi con 12.400 suore presenti in 97 Paesi, le Figlie della carità sono la più grande congregazione di religiose al mondo.

La casa generalizia è nel cuore di Parigi, presso il convento di rue du Bac, il vecchio edificio Châtillon, all’interno del quale è la Cappella della Madonna della Medaglia Miracolosa, importante luogo di preghiera e di pellegrinaggio, costruito in seguito alle apparizioni mariane del 1830: la Madonna apparve a Caterina Labouré e le affidò il compito di coniare la popolarissima medaglia, oggi oggetto di devozione in tutto il mondo.

Suor Françoise Petit, che un anno fa è stata eletta superiora generale, conferma la vocazione al servizio dei poveri e dei malati.

Le Figlie della Carità sono la prima congregazione al mondo in termine numerici: come lo spiega?

È vero, siamo ancora tante, ma i numeri stanno scendendo. Un tempo eravamo 40.000! Al momento ci sono circa 140 suore nel seminario (novizie). In generale le giovani che entrano sono attirate dalla vita comunitaria, dalla vita di preghiera. Vedono che siamo veramente al servizio delle persone che vivono in condizioni di precarietà oggi, secondo il carisma ricevuto dai nostri fondatori, san Vincenzo de’ Paoli e santa Luisa de Marillac.

Voi emettete un voto di povertà e d’impegno al servizio dei poveri: come vivete la povertà?

Cerchiamo di accontentarci di ciò che è necessario. Mettiamo tutto in comune e quindi nulla ci appartiene. Quando dobbiamo comprare qualcosa, prima pensiamo se è veramente importante. Ma il voto di povertà non si vive tanto come obbedienza a una disciplina fatta di regole quanto come una condotta scelta liberamente, che ci porta a distaccarci pian piano dalle cose materiali. Quando sono entrata nella congregazione delle Figlie della Carità avevo una mia idea su come le cose dovevano essere, ma poi quell’idea si è evoluta quando ho capito che il voto di povertà era una risposta data continuamente. C’è un cammino per seguire Cristo, casto, povero, ubbidiente.

Qual è il voto più difficile? Molte consacrate dicono che è quello dell’obbedienza!

In realtà dipende spesso dai momenti della vita e dagli eventi. Obbedire può essere difficile per esempio quando si cambia di comunità, se si è attaccati alla missione e soprattutto alle persone di quella che si lascia. Può essere uno sradicamento, vissuto sulla propria carne. A volte è il voto della povertà perché ci si sorprende ad avere la tentazione di comprare. A volte è quello della castità, perché può farci provare mancanza di affetto e senso di solitudine. Ma in realtà i voti sono tutti legati tra loro e noi sperimentiamo gradualmente la loro capacità di renderci libere. Dico spesso di non irrigidirci ma di affidare al Signore tutti i desideri che abbiamo di rispondere al suo appello attraverso i voti. I voti sono un impegno ma sono anche una strada da percorrere. La pace interiore, la maturità spirituale si raggiungono nel corso degli anni. All’inizio il desiderio di vivere tutto in modo radicale è forte, allora ci si irrigidisce un po’, ci si paragona alle altre o si dispera di se stesse. E tutto questo non fa crescere…. Bisogna cominciare riconoscendo i propri doni e accettando i propri limiti. La meditazione della Parola di Dio e anche il tempo di condivisione comunitaria aiutano in questo. Inoltre il confrontarsi sulla Parola di Dio permette di conoscere più a fondo le suore della propria comunità e di aiutarsi a vicenda.

Qual è la povertà del peccatore così come la riconosciamo, per esempio, nell’Ave Maria, quando l’imploriamo dicendo «prega per noi peccatori»?

La povertà del peccatore è di essere a volte lontano da Dio, sordo alle sue richieste, o cieco nei confronti di se stesso, degli altri, o delle miserie che lo circondano. A volte senza neanche rendercene conto, non siamo più conformi alla volontà del Signore, che però ci perdona, fortunatamente. E anche questo a volte lo dimentichiamo. Forse è una delle povertà più grandi, ed è quella che ci porta a disperare di noi stesse, dimenticando che il Signore si fida in noi, e se noi ritorniamo da Lui, Lui ci accoglie sempre.

In che cosa consiste la povertà evangelica? C’è una povertà da ricercare e una da combattere?

La povertà evangelica è quella che ci viene chiesto di vivere nella sequela di Cristo, che non aveva nemmeno dove poggiare il capo. È anche la povertà di spirito e la semplicità di cuore che non ostacolano i doni di Dio. La povertà da combattere non è di questo tipo. È la violenza, l’ingiustizia, la miseria. Una delle nostre sfide in quanto Figlie della Carità è la difesa dei diritti umani. Molte suore sono impegnate in questo ambito, sia partecipando a progetti e alle azioni di associazioni, presso l’Onu — dove sono presenti due Figlie della Carità — sia nella vita quotidiana a livello locale. In Francia, per esempio, la dignità delle persone anziane fa talora parte dei diritti umani violati, e alcune Figlie della Carità, a loro volta anziane, sono presenti là dove esiste questo tipo d’ingiustizia o di miseria.

Come vivete l’anzianità nelle vostre comunità?

Ci sono grandi differenze da un Paese all’altro. In Kenya o in Albania, per esempio, non ci sono suore anziane. Invece in Europa — in Italia, Francia, Spagna, Germania e Paesi Bassi — le comunità stanno invecchiando. Alcune Provincie possono permettersi di mantenere le suore anziane in comunità attive, perché ci sono abbastanza suore in grado di occuparsi di loro. In Francia le suore anziane vengono spesso inserite in un Ehpad [N.d.T.: centro di accoglienza per persone anziane non autosufficienti] dove, con i propri limiti, proseguono la loro missione tra altre persone anziane. Sono un segno di Chiesa attraverso la vita fraterna, prestando un’attenzione particolare agli altri.

Ci sono povertà che le risultano più insopportabili di altre, a livello personale?

Quando ero assistente sociale, ciò che mi sconvolgeva di più era incontrare i genitori, le madri in particolare, che avevano perso un figlio. A fine agosto sono andata in Ucraina a trovare le nostre suore, che stanno accogliendo molti sfollati, soprattutto donne e bambini. Anche in quell’occasione mi ha scosso molto ascoltare, per esempio, una donna che ha raccontato che i suoi due figli erano al fronte. Il suo dolore mi ha colpito nel profondo. Ci sono effettivamente povertà che lasciano il segno.

Lei è stata eletta superiora generale delle Figlie della Carità: chi ricopre ruoli di autorità deve a sua volta confrontarsi con la povertà?

La sperimento ogni giorno. Povertà di competenze, di carattere, aridità spirituale, stanchezza…. Devo sempre confrontarmi con i miei limiti. Non ho solo difetti, ma li ho, come tutti. Fortunatamente non li ho tutti lo stesso giorno! (risata). Ma non sono sola, sono circondata da otto suore del Consiglio generale. Ho fiducia in loro, ci completiamo. Quando hai autorità, il problema è che per gli altri è più difficile dirti che qualcosa non va. Quando ti applaudono è bello, ma bisogna imparare a non prenderlo come qualcosa di personale e a non perdere mai di vista che a essere applaudito è il Signore che compie la sua opera. A volte, quando vedo le suore pregare, mi dico: forse sono quella che prega meno bene! Poi mi rassicuro, perché in realtà non c’è primo o ultimo. L’importante è sapersi accolti dal Signore, quali che siano i nostri limiti. È lui che fa l’essenziale, noi facciamo quel che possiamo con ciò che siamo.

di Marie-Lucile Kubacki
Giornalista, corrispondente da Roma per La Vie


E Paolo VI le invitò a togliere la cornetta


In origine le Figlie della Carità indossavano abiti secolari, ma presto si affermò l’uso del costume delle ragazze del popolo dell'Île-de-France, in stoffa grossolana di saia grigia (donde il nome soeurs grises, in Francia), e con colletto e cuffia (toquois) bianchi; la cuffia venne poi sostituita dal caratteristico copricapo a larghe tese, la cornetta, già in uso tra le contadine di Parigi, della Piccardia e del Poitou, le cui “ali” nel corso del XVIII secolo divennero sempre più larghe e inamidate. Dopo il concilio Vaticano II, papa Paolo VI invitò personalmente la superiora generale della Figlie della Carità a semplificare l’abito, che il 20 settembre 1964 divenne blu scuro e senza cornetta.


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