Un libro del teologo don Armando Matteo

I ragazzi, la fede
e i vecchi Peter Pan

 I ragazzi, la fede e i vecchi Peter Pan  QUO-248
28 ottobre 2022

Con “Riportare i giovani a messa”. (Ancora ed. 2022, 13e.) don Armando Matteo, segretario della Congregazione della Fede, teologo e saggista, ha completato una trilogia, dedicata alla condizione giovanile e il suo travagliato rapporto con la fede. La tesi, già esposta nei precedenti “Pastorale 4.0” e “Convertire Peter Pan”, può essere molto sinteticamente riassunta in questi termini: il dato sociologico che più caratterizza i nostri tempi è il “deficit di adultità”. Le condizioni subentrate di benessere economico, sanitario e culturale, sperimentate dalla generazione di mezzo, inducono ad apprezzare unicamente il presente, e ad eternizzarlo, nell’aspirazione ad una eterna giovinezza. Se è felice il presente perché aspirare ad un “oltre” indefinito, incerto, da conquistare? Cioè, per questa generazione sono venuti meno il desiderio e la speranza. Questa generazione dunque non “cresce”. Rifiuta ed esorcizza l’orizzonte della finitudine. Persegue modelli di vita improntati al rimanere giovani oltre i limiti fisiologici del tempo. Così facendo peraltro blocca il processo di maturazione dei figli, che non hanno più un modello di adultità a cui ispirarsi. I giovani si ritrovano ad essere le vittime principali della “generazione Peter Pan”, che al tempo stesso pur impedendogli di maturare gli rimprovera di essere immaturi. Matteo spiega, nel suo libro, come anche la trasmissione della fede incontri un corto circuito irreparabile a causa del deficit di adultità, perché la fede è una scelta matura; anche quando è compiuta da giovani implica un riferimento sicuro alla maturità. Tutto ciò impone, secondo l’autore, un ripensamento della pastorale, che è ferma all’interlocuzione con un uomo (e una donna) che non esistono più. E fornisce dieci avvisi per una nuova pratica pastorale, presi direttamente dalle parole di Papa Francesco. Il tema proposto — anche con una certa provocatorietà — dai libri di Armando Matteo è molto importante, e, a rigor di logica, dovrebbe occupare i primi posti d’interesse nel confronto sinodale. Per questo “L’Osservatore Romano” lo ha voluto approfondire in una lunga chiacchierata con l’autore, riservando uno spazio ad ulteriori contributi sul tema in questa rubrica #Cantiere Giovani.

Monsignor Matteo, la prima cosa che si nota del suo ultimo libro è il pathos con cui espone la sua tesi sul “deficit di adultità”: la ripete e declina decine di volte come a reclamare un’evidenza e un’urgenza che non vengono comprese. Anche dai vescovi, perché il suo giudizio sugli esiti del Sinodo sui giovani è molto severo. Da questo punto di vista vorrei intanto chiederle: non sta assolutizzando eccessivamente questa pur giusta tesi? Alla caduta verticale della trasmissione della fede ai giovani non concorrono anche altri fattori? In fondo la mancanza di trasmissione della fede riguarda anche quei genitori che hanno conquistato un’adultità, e che sono religiosi. Pensi a quei movimenti ecclesiali che erano nati qualche decennio fa come movimenti di giovani e oggi sono composti unicamente da 60/70enni. Neanche i figli li hanno seguiti...

Ma guardi, sicuramente ho voluto enfatizzare questa causa della generazione non-credente perché non solo la considero primaria, ma anche perché non mi sembra sia stata compresa e metabolizzata nella consapevolezza della coscienza ecclesiale. Magari ne parliamo in qualche dibattito o ne scriviamo su qualche rivista, ma quando poi ci si cala nella concreta realtà della pastorale giovanile delle parrocchie o dei movimenti continuiamo a pensare che la trasmissione della fede si sia inceppata perché la secolarizzazione ci scavalca oppure perché i giovani sono nativi digitali che rifuggono il senso di comunità, oppure che non parliamo il loro linguaggio. Invece nella Chiesa non si capisce che il problema dei giovani sono gli adulti. Che gli impediscono loro di crescere. Nella vita come nella fede. Io invece su questo punto insisto, e non solo nella diagnosi, cioè che la mancanza di una testimonianza di un’adultità, e di un’adultità credente, è nella maggior parte dei casi all’origine del disinteresse dei giovani per la fede. È lapalissiano: un bambino si appassiona al seguito del genitore al Milan, alla Roma, cioè alle passioni dell’adulto. Ma se nessuno gli parla, o non vede di prioritario interesse, un discorso sull’Oltre, su Dio, perché dovrebbe maturare una coscienza di fede? Ma insisto anche per un altro motivo, e cioè che questa diagnosi ci pone dinanzi a quella che è la sfida più importante per Papa Francesco: quella di un cambio di mentalità pastorale. La nostra mentalità pastorale è tarata su un adulto che non c’è più. Se non comprendiamo le trasformazioni radicali intervenute nel mondo degli adulti finiamo col rallentare il necessario cambio di mentalità pastorale. Il nostro cristianesimo è ancora rivolto — come dicevano i salesiani — a formare dei buoni cittadini e dei bravi cristiani. Quella bella immagine del ragazzo che crescendo mette la testa a posto, fa famiglia, e la domenica va a messa, prima della lasagna e le pastarelle, non c’è più. E non ritorna.

Quindi il tema è che una pastorale per i giovani presuppone una nuova pastorale per gli adulti.

Esattamente. Noi possiamo ricostruire una pastorale per i giovani che risulti efficace, solo se ripensiamo alla pastorale complessivamente. Il cristianesimo, come ci ha insegnato il Concilio vaticano ii , è una proposta di vita che afferisce agli adulti; la nostra pastorale non è oggi per questi adulti, perché ha una struttura, un’immaginazione che non corrisponde più alla vita reale.

D’accordo, rimaniamo ancorati alla realtà, e diciamo allora però che il deficit di adultità è andato spesso smarrendosi anche tra i pastori...

Beh..., facciamo parte di questo mondo. Anche la conclamata evanescenza del ruolo del padre ha contaminato la figura dei pastori, che sono spesso percepiti più come fratelli che come padri. Ma, ripeto, i preti non vivono in una bolla di vetro atemporale. E poi questa giusta osservazione implicherebbe una più lunga riflessione sulla formazione al ministero, che però non attiene all’economia di questa nostra conversazione. Ma che è urgente fare.

Oppure pensi, a proposito della molteplicità della cause che pregiudicano la trasmissione della fede, che un bambino che frequenta la parrocchia, nel 90% dei casi è catechizzato da una donna. Mi passi il poter dire che c’è anche un deficit di mascolinità nella trasmissione della fede. E non è cosa di poco conto nel processo educativo. C’è, accanto all’esigenza di una pastorale adeguata ai tempi, anche un problema di postura ecclesiale.

Io direi in generale che c’è un problema di pastoralità. E l’evidenza di questo problema è la grande intuizione del magistero di Papa Francesco. Papa Francesco dice: chi è il pastore? Il pastore è colui che ha a cuore che le persone — tutte le persone — incontrino Gesù, e che a tal fine può rimettere tutto in discussione. Al cap. 27 di Evangelii Gaudium dice che se vogliamo essere pastori e portare Gesù a tutti e tutti a Gesù dobbiamo essere consapevoli che il nostro modo di parlare risponde a domande che la gente non si fa più. Dobbiamo tornare ad amare così tanto la missione a cui siamo chiamati da essere pronti a cambiare noi stessi, il nostro modo di pensare ed agire. Se amiamo Gesù, la voglia di farlo conoscere sopravanza le nostre fissità. Non per difesa della categoria...ma, vede, questo sistema pastorale è vecchio di secoli, non abbiamo memoria recente di come si fa ad inventare una nuova pastorale, una nuova Chiesa; e questo mette paura. A volte si dice che non abbiamo letto bene Evangelii Gaudium, io penso che l’abbiamo letta tanto bene da essercene spaventati…Una nuova postura richiede una capacità di lettura e di azione a tutto campo, che guarda al mondo complesso in cui viviamo, e soprattutto che ha contezza di questo assurdo, che solo Papa Francesco denuncia: l’assurdo di un mondo che insegue l’eterna giovinezza, e allo stesso tempo fa fuori i giovani. Un mondo che non insegna come si diventa umani, come si diventa adulti, che non persegue altri valori che non siano la visibilità e il denaro. Il veleno più grande che può essere inoculato in un giovane è convincerlo che ha già tutto quello che può desiderare. Perché un giovane dovrebbe desiderare di crescere se gli pseudo-adulti gli mostrano che felicità è rimanere giovani?

Quando si chiede ad un giovane: cosa è secondo te la religione? Invariabilmente ti rispondono “è quella cosa che ti dice cosa è buono e cosa è cattivo, cosa è giusto e cosa è sbagliato”, cioè hanno in mente fondamentalmente un sistema normativo.

Ma infatti questo mio libro, e tutta questa “trilogia di Peter Pan” ha l’obiettivo di far comprendere a chi è in relazione con i giovani, o ha una responsabilità pastorale, che i presupposti socio-culturale su cui si è retta fino ad oggi la pastorale cristiana non esistono più. Quell’impronta moralistica, ma più in generale quell’attitudine metafisica, quel platonismo latente, che ci ispiravano in passato non esistono più. Pensi per esempio all’esperienza della preghiera, che non era necessariamente legata alla frequentazione ecclesiale, ma viveva già nella famiglia. Le difficoltà del vivere di 50 anni fa, spingevano a cercare un rifugio nel senso religioso. E in quel senso costruire una cornice morale serviva non a bacchettare ma ad offrire l’idea di un buon vivere. Tutto questo oggi non c’è più. Allora ci si accorge che quella pastorale oggi non solo non è più inefficace ma controproducente. E te ne accorgi soprattutto se entri in contatto con i giovani. Se rimani chiuso nella tua “sagrestia mentale” hai dei giovani una tua proiezione ideale, ma non la realtà. Se continuiamo a pensare alla giovinezza come uno stato esistenziale ideale, tanto da volerlo perpetuare, sei fuori strada. Crescere invece è un processo difficile, a volte drammatico. E oggi, crescere in un mondo di adulti-peter pan lo è ancora di più. Pandemia, guerra, cataclisma climatico, creano nei giovani una profonda inquietudine, che produce anche indignazione. Pensa che forse i giovani non sappiano di avere sulle spalle il debito pubblico generato da Peter Pan? O che pagheranno loro la spensieratezza ecologica delle generazioni che li hanno preceduti? Con fatica certo, ma i giovani esprimono spesso un senso di responsabilità maggiore di quello degli adulti: altro che apatia sociale! Una delle poche cose che i giovani ancora sentono di avere sotto il proprio dominio è la corporeità. E per rispondere alla sua domanda, noi spesso diamo l’impressione non di aiutarli ad affrontare i temi della sessualità uscendo dalle ambivalenze e semplificazioni, ma di scipparli di questa loro autonomia residua. Dovremmo invece cercare di comprendere che sono cambiati alcuni paradigmi, di ordine antropologico e non solo culturale, penso ad esempio alla necessità di riflettere su come sia cambiato il concetto di desiderio. Perché anche quando si parla di corporeità, non c’è più la “valle di lacrime”.

Al termine di questa analisi lei fornisce dieci indicazioni su “come riportare i giovani a messa” traendoli direttamente dalle parole di Papa Francesco. Indicazioni che, come conseguenza della sua analisi, riguardano più il mondo degli adulti. Perché, come scrive, se non cambia la pastorale in generale, se non aiutiamo gli adulti-Peter Pan a crescere, neanche i giovani matureranno, e non maturando non scopriranno un senso anche religioso delle loro esistenze.

Sì, sono dieci indicazioni molto pratiche, concrete. Che mi auguro siano lette e prese in carico da educatori e preti. Indicazioni che poi si riassumono nel pensiero essenziale che Papa Francesco esprime nella Christus Vivit, e cioè che essere cristiani significa entrare in contatto con una realtà fondamentale: cioè che noi siamo umani quando amiamo. Cioè che, pur considerando tutti i cambiamenti, culturali o antropologici, la nostra umanità esprimerà il massimo solo attraverso l’amore.

di Roberto Cetera