Hic sunt leones

Chiesa africana
chiesa missionaria

 Chiesa africana  chiesa missionaria  QUO-248
28 ottobre 2022

Il mese di ottobre, tradizionalmente dedicato alla evangelizzazione dei popoli, rappresenta un’occasione privilegiata per riflettere sulle sfide che la Chiesa è chiamata ad interpretare e affrontare in un mondo in continuo rapido cambiamento. Si tratta di un tema estremamente rilevante non solo per le comunità di antica tradizione, come quelle europee, che hanno inviato nel corso dei secoli, missionari e missionarie in quelle che Papa Francesco chiama le periferie del mondo. La responsabilità ricade anche sulle giovani Chiese, dunque anche su quelle africane in cui vi è una crescente fioritura di vocazioni sacerdotali e laicali.

L’indimenticabile teologo del ‘900, Karl Rahner, riteneva che l’ordine del giorno della missione della Chiesa dovesse essere necessariamente dettato dal mondo, un’affermazione che trovò peraltro risonanza nel magistero conciliare, quello del Vaticano ii , nel quale viene sottolineata la centralità dei segni dei tempi. Alla luce della mia personale esperienza, avverto la necessità di condividere con i lettori di questo giornale quanto ho compreso in questi anni alla scuola di tanti e tante missionari e missionarie che ho incontrato nel vasto continente africano.

L’intento non è affatto quello di giudicare una realtà ecclesiale che sta manifestando al proprio interno non pochi fermenti, quanto piuttosto quello di tentare di enucleare alcune aree tematiche rispetto alle quali occorre operare un sano e costruttivo discernimento. La collocazione dell’Africa, nel perimetro del cosiddetto mondo villaggio globale, esige necessariamente un riposizionamento rispetto al passato, nella consapevolezza che anche questo continente è parte integrante di una società planetaria in progressiva trasformazione. D’altronde, anche in Africa si avverte sempre più l’esigenza di un rinnovamento come auspicato da Papa Francesco nel suo illuminato magistero senza dover vincere l’altrui concorrenza.

Come ha sottolineato, in un suo recente intervento, padre Gabriele Ferrari, ex superiore generale dei missionari saveriani: «Per annunciare il mistero della Pasqua, la “parola della croce” che è scandalo e stoltezza per coloro che non credono, ma che è «potenza e sapienza di Dio» (cf. 1Cor 1,23-24), la Chiesa dovrà certo rinnovare il proprio linguaggio (Evangelii gaudium 41) e riscrivere certe formule liturgiche e del catechismo, inquinate di una teologia oggi non più comprensibile. Soprattutto dovrà diventare una Chiesa testimoniante, segnata dalla santità del quotidiano (cf. Gaudete et exultate 33), che attiri con il fascino della bellezza della sua maniera di vivere, della carità e del disinteresse, e non per la forza delle sue opere (v. il “proselitismo”, Evangelii gaudium 14) e meno ancora per la sua potenza mondana». Non v’è dubbio che di fronte a quanto sta avvenendo oggi sul palcoscenico internazionale, rispetto ad esempio alla crisi pandemica o alla guerra in atto nell’Europa orientale, lo scoraggiamento potrebbe prendere il sopravvento. Invece questa sensazione di insufficienza e d’ impotenza offre alla Chiesa, in particolare quella africana, il passo giusto per rivolgersi al mondo.

Ecco che allora la prima sfida è quella di rendere intelligibile il messaggio evangelico promuovendo sempre più l’inculturazione. È evidente che l’Africa è uno straordinario contenitore di culture ancestrali rispetto alle quali occorre manifestare sempre rispetto. Vi sono, infatti, valori nelle culture e nelle religioni tradizionali africane come l’ospitalità, il rispetto per gli anziani, la relatività del tempo, l’importanza della famiglia, la solidarietà... che non vanno affatto sottovalutati. Questo deposito di saperi è ben espresso nel riconoscimento dell’Essere Supremo. Nella lingua swahili, ad esempio, si dice spesso: «Mungu yupo», che vuol dire «Dio c’è». Si tratta di una confidenza in Dio, soprattutto nei momenti difficili o di sofferenza. Come ha pertinentemente descritto padre John Mary Waliggo, nel saggio “Inculturation: Its Meaning and Urgency”, l’inculturazione è «il tentativo sincero e serio di far comprendere sempre meglio Cristo e il suo messaggio di salvezza a popoli di ogni cultura, località e tempo, vale a dire la riformulazione della vita e della dottrina cristiana secondo i modelli concettuali di ciascun popolo. È il continuo tentativo di fare in modo che il cristianesimo possa veramente “sentirsi a casa” nelle culture di ogni popolo». A questo proposito egli rileva come il rifiuto di inculturare il messaggio rallenti il «radicamento» della Chiesa nel continente africano, facendo sì che la Chiesa e la fede rimangano «piante da vaso», che continuano a vivere per sempre in un terreno estraneo. Per esempio, quando si parla di solidarietà, essa è spesso praticata nell’ambito familiare, clanico o etnico, ma non necessariamente al di là di questi contesti. Anche in Africa vi è la necessità di recepire l’istanza posta dall’enciclica Fratelli Tutti, vale a dire comprendere col cuore e con la mente che, come suole ripetere Papa Bergoglio: «siamo tutti sulla stessa barca».

In questo stesso contesto di multiculturalità riconosciuta, la missione evangelizzatrice non deve stancarsi di ricercare il dialogo fra le culture e il dialogo interreligioso. Il tema non è nuovo, ma dopo anni in cui questo discorso è stato frenato dalla paura di compromettere l’unità e forse anche l’uniformità della vita della Chiesa, Papa Francesco ha spiegato in più circostanze come la Chiesa, pur riconoscendo le diversità di ordine teologico, storico e culturale, possa ricercare e promuovere quello che è comune tra i fedeli delle diverse confessioni cristiane e delle religioni non cristiane. Non a caso, lo scorso 6 giugno rivolgendosi alla plenaria del Dicastero dedicato al rapporto con le altre fedi, Papa Francesco ha detto: «Questa è la vostra missione: promuovere con altri credenti, in modo fraterno e conviviale, il cammino della ricerca di Dio; considerando le persone di altre religioni non in modo astratto, ma concreto, con una storia, dei desideri, delle ferite, dei sogni».

A questo proposito è bene rammentare quanto scrisse il teologo camerunese Jean Marc Ela in un articolo dal titolo «L’Église, le monde noir et le Concile», nel quale affermava: «Non occorrono molti sforzi per rendersi conto dell’urgenza umana e cristiana del problema fondamentale che l’Africa pone alla Chiesa: de-occidentalizzare la Chiesa, liberarla da essa, da una certa tutela, da certe connessioni con modi di pensare, di essere, di esprimersi tipicamente occidentali». Ciò che rendeva Ela particolarmente insofferente era l’atteggiamento impositivo degli stranieri, poca importa che fossero politici o ecclesiastici, i quali, spesso, con fare altezzoso redarguivano i popoli africani ostentando nella migliore delle ipotesi un contegno paternalistico. Ela scrisse il suo articolo nel lontano 1963 durante il Concilio Vaticano ii e non v’è dubbio che le sue parole sono ancora oggi attuali. La pensava allo stesso modo il teologo tanzaniano Laurenti Magesa quando scriveva che «la Chiesa occidentale dovrebbe innanzitutto ascoltare quello che gli africani hanno da dire su Dio e Gesù Cristo, ascoltare con la mente libera da pregiudizi, ascoltare e imparare. E poi rispettare. Rispettare le culture dell’Africa, le sue tradizioni, la visione del mondo e della vita proprie di questa terra: è un grande monito che mette l’Occidente globalizzato e impregnato di cultura materialistica di fronte alla sfida della diversità come alternativa possibile, anche dal punto di vista spirituale, a un modello dominante».

In questa prospettiva, missionariamente parlando, le Chiese africane hanno ancora oggi estremo bisogno di affermare la cooperazione missionaria secondo la logica dello scambio, quella del dare e del ricevere. Questo in sostanza significa capire che anche le giovani Chiese africane hanno molto da insegnare alle altre; basti pensare alla ministerialità che, sarà anche per questioni di necessità, è molto progredita in terra africana rispetto al contesto europeo.

Com’è noto, il sogno di Papa Francesco è quello di una Chiesa «missionaria, capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (Evangelii gaudium 27). In vista di questo cambiamento, guardando anche alle istanze poste dall’Africa, egli offre una sua proposta: l’«ecologia integrale» (Laudato si’ 138-141) che collega la cura della casa comune con quella dei suoi abitanti: «L’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani. C’è un’interazione tra gli ecosistemi e i diversi mondi di riferimento sociale» (Laudato si’ 141). Gli effetti devastanti del cosiddetto Global Warming come anche della crescente esclusione sociale in Africa oggi sono tali da rendere queste parole un vero e proprio imperativo. È chiaro che il futuro dell’umanità non potrà prescindere dal riscatto delle masse impoverite: «Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri… non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema» (Evangelii gaudium 202).Ma dietro a tutte queste sfide o obiettivi che l’Africa rivolge alla Chiesa, bisogna anzitutto che la Chiesa stessa sia capace di offrire ai popoli di questo immenso continente la Buona Notizia di un Dio amico, ricco di misericordia, che si è fatto piccolo e umile, schierandosi decisamente dalla parte degli ultimi. Proprio come espresso a chiare lettere da Papa Francesco all’inizio del suo ministero petrino nella veglia di preghiera per la Pentecoste 2013: «I poveri sono la carne di Cristo».

di Giulio Albanese