La carità sociale del cardinale Ernesto Ruffini

Non si può credere
senza agire

 Non si può credere senza agire  QUO-247
27 ottobre 2022

Pubblichiamo stralci della relazione tenuta il 24 ottobre dal prefetto del Dicastero per la comunicazione alla Facoltà di teologia dell’Università pontificia di Salamanca dove si è svolta la sessione scientifica sul tema «L’opzione per i poveri nel ministero pastorale del cardinale Ruffini». Presso l’ateneo spagnolo il 10 dicembre 1998 è stata istituita la Cattedra «Cardinale Ernesto Ruffini» per approfondire studi biblici, ecclesiologia, dottrina sociale della Chiesa, così come il pensiero e l’azione del porporato lombardo, arcivescovo di Palermo dal 1945 al 1967, anno della morte.

Per comprendere davvero la natura del pensiero sociale, dell’azione caritativa e delle opere del cardinale Ernesto Ruffini occorre andare alla radice profonda che tutto questo ha generato, al momento sorgivo della sua fede e della sua vocazione sacerdotale. Una fede semplice, come quella dei piccoli. Una chiamata radicale, avvenuta quando era ancora bambino e accettata con la stessa fiducia e gratitudine di Maria. Un “eccomi” vissuto in comunione con Lei, aggiungendo alle promesse sacerdotali il voto di castità perfetta, di umiltà e di povertà. Una vita intera intessuta di un solo proposito: l’adesione totale, piena, al Vangelo.

Permettetemi dunque di intrecciare il mio intervento con i miei ricordi; e di partire da qui: dalla sua fede, dalla sua spiritualità, per come la intuii allora quando ero bambino, e per come la capisco adesso, ripensando ad allora.

Ricordo che mio padre ci raccontò di come quando morì suo nonno, papà dunque anche del cardinale, Ernesto rinunciò ad ogni suo diritto dichiarando proprio a lui: «Tu sei del mondo. Io appartengo alla Chiesa, non posso e non voglio possedere beni materiali». E così fece.

San Francesco, san Giuseppe Cottolengo, san Giovanni Bosco, santa Teresina: ecco i riferimenti evangelici ed ecclesiali di Ernesto Ruffini seminarista, sacerdote, vescovo e cardinale, corroborati da anni di studio delle Scritture e della storia della Chiesa, per arrivare a una verità semplice, essenziale, pura: «Il mondo invano ha cercato di persuadere che la felicità è riposta nel possesso dei beni della terra. Chi li ha conquistati ne ha ricavato delusione. Secondo l’insegnamento del divino Maestro, per arrivare a essere contenti bisogna battere un’altra strada. Tante verità — scriveva — ha insegnato nostro Signore, ma un solo vocabolo riassume tutta la legge: caritas, l’amore» (Lettera pastorale Unità nella carità, 7 marzo 1959).

La carità era per lui innanzitutto una scelta di vita. Era il frutto di quel “sì” bambino alla chiamata del Signore: «Lascia tutto quello che hai e seguimi». La carità sociale discendeva dall’impossibilità di credere senza agire di conseguenza, sul piano personale e su quello pubblico. [...] La povertà è ciò che definisce meglio il cardinale, che lo racconta di più. La povertà come via d’ingresso alla carità, ragione delle sue opere, testimonianza concreta del suo pensiero sociale. Un’assistente che negli anni 1956-57 prestava servizio alla mensa per i poveri istituita al Centro sociale dell’Origlione, a Palermo, lo ricorda andare con frequenza alla mensa e intrattenersi con le persone servendo loro personalmente i pasti, assaggiando i cibi per assicurarsi che fossero buoni e ben preparati, ripetendo sempre che «ai poveri si devono dare le cose migliori». La religione — diceva — «non è soltanto culto, ma fermento sociale. […] Non si può aver pace finché si sa che nella propria parrocchia vi sono poveri senza pane e senza tetto. Se sarà necessario sarà dato il permesso di vendere i calici per soccorrerli, e anche io venderò la mia croce di vescovo». E ancora: «La carità è la sostanza del Vangelo, non è una virtù facoltativa».

Fu così che da vescovo, di fronte alla fragilità del welfare pubblico, contando sulla provvidenza progettò e diede vita a Palermo e in provincia a una serie impressionante di opere sociali fra gli anni Quaranta e Cinquanta: mense per i poveri dovunque fosse possibile; un poliambulatorio centrale per malati privi di assistenza mutualistica, e dodici ambulatori periferici; e poi centri di servizio sociale, oratori, scuole popolari per analfabeti, ragazzi e adulti, scuole materne, colonie estive diurne e residenziali; un villaggio per i senza tetto, uno per gli anziani, alternativa sorprendentemente moderna agli ospizi e alle Rsa, una casa per i bambini. Molto attento al ruolo della donna fondò l’Istituto delle Assistenti sociali missionarie, apostole della carità, dedite alla promozione dei poveri e dei lavoratori, a quello che oggi chiamiamo sviluppo umano integrale. Tutt’altro che conservatore sul piano sociale, diceva: «Le vecchie forme non bastano più». Chiedeva al potere pubblico di agire e mobilitava intanto la Chiesa a fare la sua parte, secondo il principio di sussidiarietà. In questo senso fu un anticipatore.

Una settimana dopo il suo arrivo a Palermo (31 marzo 1946) erano giunte in arcivescovado più di 80.000 domande di aiuto. Nessuna rimase lettera morta. «Il cardinale leggeva ad alta voce, con i suoi collaboratori, quasi tutte le lettere che gli venivano consegnate dal suo segretario Leggeva e cercava la risposta giusta. [...] L’ultima, trovata ai piedi del catafalco, gli chiedeva di essere recapitata al Signore. Era indirizzata semplicemente a Gesù. La donna che l’aveva scritta, sicura che lui lo avrebbe fatto, gli raccomandava di portare la missiva con sé in cielo per rappresentare lì la miseria in cui si dibatteva la sua famiglia. La lettera fu chiusa nella bara, assieme alla Bibbia, alla mitria, al bastone pastorale e al rogito» (Antonio Ravidà, Ruffini in privato, Giornale di Sicilia, 15 giugno 1967). Fu così che arrivò a destinazione.

di Paolo Ruffini