Nelle testimonianze di una rifugiata scampata ai lager libici e di una volontaria
impegnata contro la tratta di esseri umani

La voce delle donne

 La voce delle donne  QUO-246
26 ottobre 2022

«Vengo dalla Nigeria. Sono arrivata in Libia a 23 anni e sono rimasta lì per 6 anni. Pensavo che non sarei mai più uscita da quella prigione. Un vero inferno!». Con un coloratissimo abito tradizionale africano, Esther Iweze Adaeze ha raccontato sul palco la propria drammatica esperienza di migrante e la successiva rinascita grazie ai corridoi umanitari: «Quando sono partita, avevo l’unico obiettivo di salvarmi; non c’era un modo regolare per partire quindi ho pagato un conoscente che mi ha portato in Libia».

Il primo posto in cui è stata trattenuta fu la prigione di Sabha, dove ha cominciato a capire che era in pericolo: «un luogo dove non c’era sicurezza, nessuno poteva aiutarmi e spesso veniamo trattati senza umanità, come schiavi».

In sei anni le è successo di tutto: «violenze, maltrattamenti, sequestri. Sono stata rapita e portata nel centro di detenzione di Tripoli; eravamo tantissime donne, non c’erano finestre, eravamo tutte a dormire per terra, c’era pochissimo cibo, spesso solo pane e acqua sporca una volta al giorno». A volte alcune di loro venivano prese «e sentivamo le urla delle torture, era terribile. Ho visto gente morire accanto a me».

A un certo punto era talmente dimagrita che anche i carcerieri pensarono stesse per morire e l’hanno fatta uscire. «Quando alcuni di noi hanno la possibilità di partire con le barche — ha spiegato — la vedono come la liberazione dalle torture. Abbiamo paura del viaggio in mare, quasi nessuno sa nuotare ma anche il rischio di morire in mare è meglio delle sofferenze nei campi di detenzione».

Si è aperta la porta dell’inferno


Perciò, ha proseguito Esther, «in quei momenti pregavo Dio di salvarmi e ho avuto la grazia di essere inserita in un viaggio dei Corridoi umanitari e sono arrivata a luglio scorso a Roma con la Comunità di Sant’Egidio. Non posso dirvi la mia gioia... è come se si fosse aperta la porta dell’inferno e vedevo finalmente un po’ di luce. Era la salvezza».

«Ho viaggiato con un documento — ha sottolineato con enfasi —, con un visto, mi hanno accolto con fiori e sorrisi. È la resurrezione. Sono libera, sono una persona umana, non ho più paura. Sto studiando l’italiano». Infine ha rimarcato l’importanza dei Corridoi umanitari, definendoli una «via di salvezza» e auspicando che possa essere «data a tante persone in fuga dalla guerra, dalla siccità e dalla povertà. Vi prego continuate a salvare tante persone che sono in pericolo di vita. Dio ve ne renderà merito».

Prima di lei aveva preso la parola l’argentina Alicia Peressutti, fondatrice della Associazione “Vinculos en Red”, impegnata nella lotta contro la tratta di esseri umani.

Se ci sono schiavi non c’è pace


«“Dov’è tuo fratello?” O tua sorella? Questa domanda scomoda che Dio fa a Caino segna la mia vita da 26 anni», ha esordito. «Mio fratello o mia sorella subiscono maltrattamenti, torture, tutte le atrocità insieme in un night club, in un laboratorio tessile clandestino, su un tavolo operatorio in cui gli strappano gli organi, in uno studio di pornografia, o con una pistola in una mano e un giocattolo nell’altra», come fanno con i bambini soldato. «Mio fratello o mia sorella vivono una Via crucis permanente — ha aggiunto con riferimento alla pia pratica del venerdì santo che il Papa compie proprio al Colosseo — in cui ogni stazione è più dolorosa della precedente. C’è un nostro fratello e una nostra sorella che è un bambino, un adolescente, un adulto o perfino un anziano, intrappolato in questa schiavitù moderna, che lascia segni e dolore per tutta la vita».

Perciò anche se a livello mondiale sono stati compiuti «progressi nel perseguimento del crimine», molto pochi sono quelli riguardanti l’assistenza alle vittime, è stata la denuncia di Alicia, «perché gli Stati non vogliono spendere il budget per quanti sono considerati rifiuti della società. Gli “scartati”», ha detto girandosi verso Papa Bergoglio, affettuosamente chiamato “Padre Jorge”.

Un crimine contro l’umanità


E per spiegare cos’è la tratta di esseri umani ha ricordato le toccanti parole di alcune vittime, come Nora, 48 anni: «Dici che mi vuoi bene? No, nessuno mi ha mai voluto bene. Le mie giornate sono nere o grigie. Prego la Vergine Maria che guarisca questa ferita dentro di me, che dopo anni continua a sanguinare. Ho incubi orribili: ogni giorno mi picchiavano, mi hanno fatto delle cose e io non ho colpa».

«Sono fantasmi — ha commentato amareggiata la volontaria —: il dolore, la disperazione, l’abbandono, la tristezza, che continuano a tormentare le loro anime, come uncini d’acciaio». Come nel caso di Juanita, 9 anni: «Ho tanta paura che torni quell’uomo, al quale mia madre ha permesso di riprendermi con il cellulare. Mi vuoi bene? Non tirare fuori il cellulare».

Da qui l’appello di Alicia affinché «la tratta di esseri umani sia dichiarata un crimine contro l’umanità. E che tutte le vittime siano riscattate». Infine un interrogativo in prima persona, però rivolto alla platea: «Sono forse il custode di mio fratello? Sì, lo sono, lo siamo — è stata la risposta —. Perché, come dice Papa Francesco “anche l’indifferenza uccide”».