I giovani, le città, le periferie e il costruire insieme

Conversazione
in tempo di guerra

  Conversazione in tempo di guerra   QUO-242
21 ottobre 2022

Renzo Piano racconta il suo incontro con Papa Francesco


«Abbiamo parlato dei giovani. Meglio: abbiamo parlato delle cose che ci uniscono e ne abbiamo scoperte tante, metà le ho tirate fuori io, metà il Santo Padre» è la prima cosa che dice Renzo Piano appena uscito dall’udienza di oggi, 21 ottobre, con Papa Francesco.

«Ad un certo punto — racconta — mi sono fatto coraggio e l’ho chiamato non padre ma fratello. E lui mi ha detto “è giusto”; infatti noi due siamo coetanei. Io sono nato nove mesi dopo di lui, lui è come un fratello maggiore, di 9 mesi più grande (e 90 anni più saggio di me). Questo essere coetanei non è solo un fatto anagrafico, è sopratutto il fatto di aver vissuto gli stessi momenti, l’Argentina non era in guerra, era lontana ma c’era la guerra mondiale, sua madre ha pianto il giorno della fine del conflitto. Quel tempo, all’inizio anche drammatico, era il nostro tempo, in cui ci stavamo formando (io sempre indietro di 9 mesi, ma procedevamo insieme) e qui è stato bello il colloquio perché metà lo dicevo io e metà il Santo Padre, le esperienze erano comuni».

L’architetto genovese ha voglia di ricordarsi tutto quello che si sono detti con il Pontefice ma vuole anche soffermarsi su alcuni passaggi, ad esempio quel periodo post-bellico, perché il suo pensiero va sempre lì, ai giovani.

Quando abbiamo vissuto quel periodo di formazione, subito dopo la guerra, avevamo la sensazione che il tempo che passava rendeva le cose migliori. È stato il grande slancio della ricostruzione dopo guerra che ci ha accompagnato nel periodo dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza; eravamo immersi in un mondo che procedeva, progrediva, migliorava. La magnifica sensazione di trovarti davanti un mondo migliore. Sia io che il Papa oggi viviamo tra i giovani, io in tutti i luoghi del mio lavoro sto in mezzo ai giovani di ogni parte del mondo. Anche in Senato, nel mio ufficio ho un tavolo tondo di compensato con molte sedie riservate ai giovani, che lavorano con me (il mio stipendio lo permette), lavoriamo insieme. Così fa il Papa che cerca i giovani, vuole stare con loro. Questo ci accomuna e ne abbiamo parlato. E abbiamo insieme constatato come sia difficile per entrambi accettare («mandar giù» è stata la sua espressione) il fatto che questi giovani non hanno la stessa esperienza che abbiamo avuto noi, il tempo che passa non presenta una prospettiva migliore. Al contrario oggi c’è la paura: il covid, la crisi climatica, tutte cose di cui c’è la consapevolezza che non si tratti di fenomeni provvisori, transeunti. Le migrazioni, le carestie... sono tragedie a cui ora si è aggiunta la guerra. Ho detto al Papa che ogni giorno lavoro per costruire luoghi pubblici, luoghi di pace, oggi ad esempio stiamo costruendo ben sei ospedali in giro per il mondo, ma che tutti questi momenti, purtroppo, sono come offuscati.

Il senatore a vita qui si ferma, sembra fremente pur nella pacatezza gentile dei suoi modi.

C’è un fatto, legato alla guerra, che segnala il motivo della mia sofferenza: io sono un costruttore, uno che costruisce luoghi per le persone, per la comunità, biblioteche, musei, ospedali, scuole... dei luoghi che sono, fanno la città e poi arriva la guerra che distrugge tutto. Una settimana fa è stato bombardato il ponte di Kherson; in un secondo momento mi sono chiesto chi lo avesse bombardato e per quale motivo, ma la prima sensazione è che un ponte era crollato, qualcosa che era stato costruito era stato distrutto. Tu costruisci e la guerra distrugge. Ho detto al Papa che quando stavo costruendo il museo di Paul Klee a Berna, un giornalista del «New York Times» mi chiese notizie sul budget, circa 100 milioni, e mi disse che era il budget di una giornata di bombardamenti, di un bombardiere americano in Iraq con i suoi caccia e il suo carico di bombe: fermando per un giorno il bombardamento puoi costruire un luogo che contribuisce a edificare la città.

La conversazione si muove all’interno del perimetro della città perché Piano vuole parlare di un altro tema che gli sta a cuore.

Abbiamo poi parlato con il Papa delle periferie. Entrambi veniamo da lì. Lui dalla “fine del mondo”, ed io dall’Italia, che non è il centro del mondo e da una città come Genova che è in qualche modo periferica: discreta, silenziosa, un po’ defilata. Io vengo poi da una periferia della città. Questa condizione è qualcosa che porti con te nella tua vita, è come un segno distintivo che spinge verso la curiosità di scoprire il mondo, di andare per il mondo, che poi ha ragione lui, si vede bene passando dalla periferia.

E qui spuntano fuori Martini e la Bibbia.

Abbiamo poi parlato di un’altra figura, che a me ha sempre attirato, il cardinale Carlo Maria Martini, che ha scritto delle belle pagine sul tema della città. Il cammino dell’uomo, dice Martini prendendo spunto ovviamente dalla Bibbia, non è verso la campagna ma verso la città. È la città descritta dal libro dell’Apocalisse: con 12 porte, lunga 12.000 stadi, cioè duemila chilometri, una città di luce, luminosa, accogliente e questa città è il traguardo del cammino dell’umanità e dove si realizza il sogno millenario degli uomini, il sogno dello shalom, della pace. Questa cosa coinvolge il tema della bellezza e il lavoro di chi, come me, costruisce i luoghi che rendono interessante una città, i luoghi pubblici in cui la gente si ritrova, se ci fossero solo le case dei privati la città sarebbe priva di interesse. E allora pensi che la pace è un po’ come costruire una città, pietra su pietra, piano piano, con fermezza, costanza, tenacia, pazienza...

L’Apocalisse infatti non ricorda al lettore soltanto che la storia umana ha una fine, ma anche e soprattutto che la storia ha un fine.

Proprio così, e quel fine, quel destino della storia è la città, quella città di luce e accoglienza descritta meravigliosamente nel testo. Quella città è l’antitesi del deserto, il luogo mostruoso della non-vita, del vuoto. L’antitesi al deserto non è la campagna ma la città. Con il Papa ci siamo soffermati su questo, sul triste paradosso per cui a volte le città diventano deserti, i deserti urbani. E insieme abbiamo detto che le città si ammalano, per questo è urgente lavorare sulle periferie, per curare, guarire il “tessuto” urbano lacerato. Ora per esempio, come ho spiegato al Papa, stiamo costruendo un grande ospedale a Parigi nella banlieu nort, quando costruisci un ospedale nella periferia finisci sempre per dare fiato alle energie positive: è chiaro che le periferie sono piene di problemi, ma sono altrettanto piene di energie positive, vitali. Ed è questa la cosa bella.

Ogni costruzione ha un cantiere, uno spazio di lavoro, di incontro, di progettazione. Mi sembra un’immagine molto bella perché la dimensione del cantiere dice in qualche modo che siamo sempre un po’ in cammino, in fieri, work in progress. Sul nostro giornale abbiamo avviato una rubrica dedicata ai giovani che abbiamo denominato #CantiereGiovani ad indicare che i giovani stessi sono un “cantiere”, sono il cantiere del futuro, dell’umanità in costruzione. E questo mi fa pensare all’Europa del Medioevo, l’Europa delle cattedrali che venivano costruite da tutta la comunità,, ognuno partecipava con il proprio piccolo o grande contribuito.

Questo è molto vero e molto bello. Così come le università. Perché c’era una dimensione “universale”, tutti verso l’unica, medesima, opera, addirittura queste erano occasioni di libertà, di liberazione dalla servitù della gleba. Costruire, creare, non è soltanto l’espressione di un genio individuale, solitario, ma una storia di popolo, di un tessuto. Io vivo in mezzo ai cantieri, luoghi straordinari, ne ho avuto di bellissimi, spesso ho aperto cantieri in luoghi molto significativi, penso a Berlino a Postdamer Platz subito dopo la caduta del muro; avevamo 5.000 operai, di cui solo 500 erano tedeschi, gli altri da tutto il mondo, turchi, francesi, italiani, russi... e lì ti rendi conto che quel luogo è stato teatro del più terribile momento della storia moderna, ebbene in qualche modo quel cantiere era la risposta, all’insegna della diversità assoluta di tutti (di etnia, lingua, colore..) ma che ogni diversità era ricchezza e non ostacolo alla medesima missione, costruire. E qui nasce anche un sano orgoglio, costruire qualcosa che sta su, in piedi, costruito da noi. Il maestro Daniel Barenboim venne spesso a trovarmi in quel cantiere e ispirato dalle sedici-diciassette gru che lavoravano simultaneamente ma senza mai entrare in collisione, realizzò, dopo mesi di prove (con tutti gli operai che parlavano lingue diverse), un “concerto-balletto” delle e con le gru in movimento, qualcosa di meraviglioso. Quando è così allora costruire è sempre costruire un ponte. Quanto è importante costruire ponti e non muri. Ho costruito molti ponti, fisici, nella mia vita, ma anche altri edifici sono ponti, metaforici. Se costruisci una biblioteca stai costruendo un ponte. In Grecia costruimmo la Biblioteca di Stato ad Atene. Piena di giovani. Il direttore mi disse che circa la metà non andava per cercare libri, ma magari per altri motivi, per stare insieme, incontrarsi in questo luogo pieno di luce: ecco il ponte. Si sta insieme per condividere valori, esperienze. In un luogo bello. E qui è stato il Papa a tirar fuori questo tema: la bellezza, fondamentale. Una bellezza che non può essere se non vera e buona. Una cosa bella è anche buona: un buon piatto di spaghetti è anche bello. In Grecia è sempre unito, ma anche nella cultura semita, così come nella lingua swahili, il Papa ce lo ha fatto notare, come a livello linguistico in tante parti del mondo bello e buono coincidano. Di questa bellezza abbiamo parlato, che tocca i cuori, e che è trasversale a tutti i campi dell’umano: nell’arte ma anche nella curiosità scientifica, come nella solidarietà e generosità.

L’opposto di questa bellezza è la guerra.

Il Papa ce l’ha nel cuore, la guerra, con il suo peso enorme. Ne abbiamo parlato, ho provato a dirgli la difficoltà che crea questo tema, ad esempio per giovani che non ne vogliono parlare, non per insensibilità o indifferenza ma per quanto è opprimente questo fatto della guerra. E noi adulti ci sentiamo impotenti. Non si riesce a dare voce a questa angoscia che ci tormenta, a trasformarla in energia costruttiva. Il Papa fa sentire la sua voce, limpida, ferma e incessante ma i grandi della politica mi sembrano assenti, impreparati, incapaci di comprendere... quando invece ci vorrebbe l’unione di migliaia, milioni di voci. Parlo da pacifista attivo, non sono infatti un cieco pacifista come si dice oggi. Ci vuole il realismo che il Papa possiede. Quello che ci resta è dunque la voce ma che sia capace di trascinare un coro di tante, tantissime, voci.

C’è un ultimo tema della conversazione, che forse sta sotto tutti gli altri..

Abbiamo parlato anche del mistero della vita. Gli ho detto del progetto che sto realizzando per gli scienziati astrofisici al Cern di Ginevra, questo famoso centro che si occupa dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, cioè le particelle subatomiche. Si stanno facendo passi avanti impressionanti nella ricerca eppure c’è sempre qualcosa che resta misterioso, riusciamo a comprendere molto le funzioni, il funzionamento, il “come”, ma ci sfugge sempre il “perché”. E questo è vero per tutto, non solo per gli scienziati. E quindi si è parlato di ateismo, di atei ma soprattutto di persone in ricerca, capaci di apertura di mente e di cuore.

È sereno, pur nella drammaticità del momento storico, Renzo Piano che insieme alla moglie Emilia esce confortato dall’incontro col Papa, non prima di aver scattato una foto su un corridoio, pieno di luce, del palazzo apostolico.

«È stata una bella conversazione», confidano, «perché abbiamo scoperto tra noi molte affinità. Come se, in luoghi e ambiti diversi avessimo vissuto vite parallele, lui in Argentina, nel sacerdozio, nel pontificato e io a Genova e nel mondo, in mezzo ai cantieri: abbiamo trovato una vicinanza legata al fatto che ci siamo alimentati a sorgenti comuni che non sono quelle del mestiere, che sono diversi, ma sono quelle dei desideri, delle curiosità, delle domande che uno si pone, che suscitano energie e nuove curiosità; tutte queste cose sono collanti straordinari che funzionano anche a distanza, e oggi che siamo stati vicini, la conferma è stata anche più bella».

di Andrea Monda