Solitudine e silenzio in un libro dell’eremita Giuseppe Forlai

Non si è mai veramente soli

 Non si è  mai veramente soli  QUO-239
18 ottobre 2022

C’è uno spettro che abita nel cuore di ogni uomo e di ogni donna di tutti i tempi: è la paura della morte. Seppelliamo questa paura con tutte le nostre forze, e lo facciamo essenzialmente perché pensiamo che senza questa “copertura” sarebbe impossibile per noi vivere. È forse questo uno dei motivi principali per cui rifuggiamo il silenzio e la solitudine.

Proprio a questi temi don Giuseppe Forlai, eremita della diocesi di Roma, dedica una lunga e intensa riflessione nell’ultimo suo testo Come una piccola creatura. Solitudine, silenzio, ascolto e vita cristiana (San Paolo, Cinisello Balsamo, 2022, pagine 176, euro 15,2).

Dovremmo però subito dire che la morte che ci fa paura non è semplicemente la morte biologica, ma qualcosa che è ancora più profondo e che molte volte ci sfugge comprendere: morire è l’esperienza di una solitudine radicale in cui vengono tranciati tutti i legami relazionali che ci fanno sentire la vita significativa. È questa assenza di rapporto ciò che si avvicina di più all’inferno.

Allora cosa fare? Le strade sono due: o usare la vita come un palliativo a questa angoscia, o accorgersi che in realtà la nostra solitudine è stata vinta in maniera radicale: «Se in un luogo c’è lo Spirito, allora in realtà io non sono mai veramente solo. Forse lo scopo della solitudine cristiana è proprio quello di farci scoprire che soli non siamo mai», scrive Forlai. È questa la via di una rivoluzione che non riguarda solo alcuni “eletti”, ma tutti i battezzati.

La vita cristiana è la vittoria sulla solitudine radicale che ci minaccia costantemente, ma è una vita che ha bisogno della nostra consapevolezza.

Per poterla valorizzare abbiamo però bisogno di staccarci da un rapporto fusionale che si viene a creare tra il verbo essere e il verbo fare, tra ciò che siamo e ciò che facciamo: «Sedersi è una vera e propria azione, molto potente, che richiede decisione, fortezza, mortificazione dell’ego: bisogna deporre ogni pretesa di salvare il mondo e resistere alla tentazione di definirsi a partire da quel che si fa».

Ecco perché chi cerca la solitudine per una pace a basso prezzo non ha ben compreso che la solitudine e il silenzio ci introducono invece proprio nel cuore stesso della lotta: «La solitudine prolungata è un inferno a gironi: i vuoti affettivi e i rancori iniziano ad abbaiare e anche a mordere».

Ma la costanza, la fiducia, e l’incessante lavorio dello Spirito dentro di noi, ci conducono a una nuova dimensione, a una postura esistenziale diversa: «Quello della sequela pertanto è un movimento immobile: seguire incessantemente lo Spirito dimorando stabilmente presso il proprio uomo interiore».

Ciò accade non per magia ma come frutto di una conversione che esige anche le nostre decisioni, la nostra fatica, il nostro lottare per liberarci da una mondanità che ci abita strutturalmente soprattutto nel nostro modo di pensare.

Forlai cita a questo proposito una frase di Divo Barsotti che ben chiarisce i termini della questione: «È facile illusione pretendere di salvare il mondo facendone parte. Fintanto che tu gli appartieni, non lo salvi. Per salvarlo, devi trascenderlo».

Detto così tutto sembra molto bello ma forse eccessivamente sproporzionato rispetto alle nostre forze. Eppure si può prendere di petto tutto ciò solo per amore. Affrontare i propri fantasmi, le proprie ferite, i propri vuoti, i propri peccati solo perché ci si disprezza e si vorrebbe essere altro, questo non solo non ottiene il risultato sperato ma acuisce l’angoscia. È solo perché abbiamo incontrato un amore grande che possiamo vivere tutto ciò come un’espressione dell’amore e non della non accettazione di noi stessi. Far pace con la morte allora diventa il segno evidente che questo amore ha ottenuto il suo più grande scopo: liberarci.

Ha ragione quindi Giuseppe Forlai a concludere che così «star soli è già morire, ma un morire bene; godere della solitudine è segno che si potrà uscire di scena con serenità».

di Luigi Maria Epicoco