Il ricordo del vaticanista Luigi Accattoli

«Christifideles», ovvero cristiani senza aggettivi

 «Christifideles», ovvero cristiani senza aggettivi  QUO-234
12 ottobre 2022

Luigi Accattoli, scrittore e giornalista vaticanista di lungo corso e riconosciuta fama, ha seguito per decenni, con gli occhi della fede ma con spirito laico, le vicende della Chiesa, non solo istituzionale. Vaticanista, prima di «Repubblica» e poi del «Corriere della Sera», ha seguito i percorsi di quattro Pontefici, e scritto diversi ed apprezzati libri sulle trasformazioni della Chiesa negli ultimi quarant’anni. A lui abbiamo voluto chiedere un punto di vista sul ruolo dei cattolici laici al concilio Vaticano ii e negli anni a seguire.

Dottor Accattoli, all’inizio del concilio, lei era appena ventenne, e forse non immaginava neanche di divenire un giorno un noto vaticanista. Ma era già impegnato tra gli universitari della Fuci. Può raccontarci quale fosse la percezione di questo straordinario evento nel mondo cattolico giovanile e laico? E con essa, anche le aspettative e le speranze che il mondo laico di allora riponeva nell’assise conciliare?

Fu una stagione felice. Spero non m’inganni la nostalgia dei vent’anni. Felice per la primavera che si respirava e che riempiva di entusiasmo anche gli osservatori laici. La nostra Chiesa che ringiovaniva e le tre cerchie del dialogo proposte, anzi cantate da Paolo vi nella Ecclesiam suam, che ci facevano scoprire fratelli con gli altri cristiani, con gli ebrei, con i credenti delle altre religioni, con i cultori degli umanesimi contemporanei. Una speranza nuova spingeva all’incontro con i cristiani un po’ tutti gli uomini di buona volontà che finalmente guardavano alla Chiesa cattolica come a una compagna di viaggio. O almeno così noi ragazzi vedevamo la scena del mondo, certamente con molta ingenuità. Non ci volle un gran tempo perché si scoprisse che nulla era così facile. Ma la spinta in avanti era stata autentica.

Da attento osservatore delle parole lei ha evidenziato un non marginale cambio lessicale. Il termine “laici” prevalente fino al concilio esprimerebbe cioè una definizione in negativo: laico in quanto “non ordinato”. I padri conciliari — e poi il nuovo Codice di Diritto canonico — predilessero invece il termine più comprensivo di “Christifideles”, cioè semplicemente “cristiani”. E i “cristiani” vengono ridefiniti anche nel ruolo: per la prima volta gli sono attribuiti precipui ruoli e responsabilità nell’evangelizzazione del mondo.

La considero una novità capitale, cuore e fondamento della promozione del laicato venuta dal concilio. Ma ritengo che essa non sia stata ancora recepita davvero né dai laici né dai chierici. Al momento non è ancora accettata neanche come linguaggio, figuriamoci come realtà. Avendo fatto per una vita — in quanto vaticanista — il mediatore linguistico tra il mondo ecclesiastico e quello secolare, volendo tener conto di questa novità conciliare nell’uso delle parole mi sono visto costretto a ricorrere all’espressione “cristiano comune” per indicare il battezzato che non ha incarichi o ministeri nella Chiesa. Ma sono convinto che un giorno si dovrà arrivare a dire “cristiani” e basta, senza aggettivi per indicare quelli che ancora chiamiamo laici.

«Lumen gentium» apre un nuovo capitolo nella relazione tra laici e ministri ordinati attraverso la rivalutazione del sacerdozio battesimale. Tuttavia permane ancor oggi, sia tra i preti che tra i laici, l’idea di una sorta di diversità ontologica tra i due stati.

Sono d’accordo e tale permanenza costituisce una fattuale smentita dell’innovazione conciliare. Il concilio afferma la pari dignità tra tutti i battezzati ma questa non è quasi mai riconosciuta nella vita ordinaria della Chiesa. Cito solo la più paradossale delle smentite, quella che nelle canonizzazioni collettive vuole presentati i nuovi santi in ordine di dignità ecclesiastica: prima i vescovi, poi i sacerdoti e i religiosi non sacerdoti, per ultimi i laici. Per non restare nel vago: quando fu proclamata santa Gianna Beretta Molla, il 16 maggio 2004, prima furono elencati quattro sacerdoti, poi una consacrata e infine lei, madre di famiglia. Questa curiosa “precedenza” in cielo non è stata superata neanche nell’attuale pontificato, benché Francesco abbia aperto nuovi spazi un po’ dappertutto ai laici e alle donne. Il 15 maggio scorso furono proclamati due santi martiri: Titus Brandsma, carmelitano olandese, e Devasahayam Pillai, laico indiano. E furono elencati in quest’ordine.

Un Sinodo sulla sinodalità è forse il passo più importante che la Chiesa compie dopo sei decenni per dare compimento alla nuova dimensione ecclesiologica uscita dal concilio, e in parte disattesa. Qual è il problema prevalente oggi da affrontare? Il permanere di un atteggiamento delegante da parte dei laici, o la difficoltà dei preti a reinterpretare il proprio ruolo?

Credo che la resistenza degli ecclesiastici a fare un passo indietro sia pari — come problema — alla timidità laicale. Il protagonismo laicale comandato dal Vaticano ii è arduo a realizzare, chiede una dedizione — poniamo a chi vive nel matrimonio — che può risultare più esigente di quella dei consacrati. La crescita di questo protagonismo sarà lenta. Quanto invece all’inerzia clericale, credo che sia ormai vicina alla resa. La mia esperienza di conferenziere e di informatore mi dice che le comunità italiane con il più alto tasso di governance ecclesiastica sono quelle più ricche di clero e più strutturate: Roma e Milano su tutte. Ma siccome ormai dappertutto galoppa il calo numerico del clero, è da prevedere che presto, ovunque, la necessità rimedierà alla scarsa volontà di cedere ruoli ai cristiani comuni.

di Roberto Cetera