Un nuovo linguaggio
nei rapporti tra le Chiese

 Un nuovo linguaggio nei rapporti tra le Chiese  QUO-233
11 ottobre 2022

Il Vaticano ii ha costituito un punto di svolta nella vita della Chiesa cattolica. Quali che siano le interpretazioni dei suoi pronunciamenti, è chiaro per tutti che vi è stato un prima e un dopo. Tra i diversi elementi che hanno segnato questa svolta ecclesiale, vi è il dialogo ecumenico. Il rapporto tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese, che era iniziato ben prima del concilio, ha infatti segnato un punto di non ritorno proprio in quel contesto conciliare. Determinante è stata la visita di Papa Paolo vi in Terra Santa e il suo incontro a Gerusalemme con il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Athenagoras, e le successive abolizioni delle scomuniche. Papa Francesco venne in Terra Santa nel 2014, insieme al patriarca Bartolomeo, proprio per celebrare quell’evento storico che ha cambiato la storia delle nostre rispettive Chiese, cosciente dell’impatto che esso ha avuto nella storia recente. Quell’incontro ha aperto gli occhi a tutti, cattolici e non, sulla necessità di adottare un nuovo linguaggio nella relazione tra le Chiese, basato non più su sospetto o rivendicazioni storiche, ma sulla necessità di incontro e di fiducia reciproca. Non si trattava di cancellare la storia, fatta di tante reciproche ferite, come se nulla fosse accaduto, ma di non fermarsi ad essa, di guardare avanti con la coscienza di una comune appartenenza: solo insieme siamo l’unica Chiesa universale di Cristo. Non possiamo guardare a Cristo e parlare di Lui, escludendo, in un modo o nell’altro, chi non è esattamente come noi o non è più con noi. Nessuno da solo ha il monopolio della memoria della morte e risurrezione di Cristo. Non dobbiamo impossessarci del Vangelo, ma servire insieme il Vangelo, rispettando certo le nostre reciproche storie, identità e teologie, ma cercando, allo stesso tempo, di rileggerci e ripensarci, senza fermarsi mai, coscienti che il dialogo e il rapporto tra le Chiese sarà sempre un cantiere aperto.

I temi del documento conciliare che ha ratificato questo nuovo atteggiamento, Unitatis redintegratio, sono ancora attuali. Allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere che quel documento è ormai datato. Tutte le Chiese hanno fatto passi da gigante in quella direzione, e ciò che allora sembrava una novità importante ed esaltante, oggi è considerato scontato e forse quasi banale. Senza escludere elementi e momenti di difficoltà, che mai mancheranno, oggi la coscienza della reciproca appartenenza è talmente radicata nella coscienza dei credenti cristiani, da essere a volte costretti a “frenare” il desiderio di unità, senza accelerare sui tempi con fughe in avanti. Se c’è una cosa che il dialogo ecumenico ci ricorda con concretezza, infatti, è che in questo comune cammino, bisogna saper stare insieme, rispettando l’uno i ritmi e i tempi dell’altro. Se si corre troppo avanti, o se si rallenta troppo indietro, si perde il gruppo, e si resta soli. Essere e stare insieme, ha i suoi costi, ma resta la priorità.

I temi di Unitatis redintegratio sono elementi costitutivi della vita di ogni Chiesa. Non si può essere Chiesa, infatti, senza una teologia dei sacramenti, basati sulla Scrittura, la rivelazione, la tradizione, senza preghiera e culto. Il concilio ci ricorda che quei temi non possono più essere studiati, costruiti, definiti, vissuti e pregati solo in riferimento a sé, alla propria Chiesa. I grandi cambiamenti sociali e culturali che stiamo vivendo, in altre parole, ci costringono a riformulare con un nuovo linguaggio la teologia di sempre, per renderla comprensibile alle nuove generazioni. Ce lo diciamo continuamente. Nella ridefinizione di quei codici di linguaggio, allora, dobbiamo ricordarci che non ci siamo solo noi e che un criterio importante di valutazione nella loro riformulazione è il rapporto con le altre Chiese. In ciò che facciamo, in ciò che diciamo e nei gesti che compiremo, dovremo tenere conto dell’impatto che tutto ciò avrà sulle Chiese sorelle. Se il rapporto con le Chiese ci sta a cuore, dovremo accettare di saper attendere.

A Gerusalemme, tutto ciò è pane quotidiano. Da noi il rapporto tra le Chiese è una questione pastorale. Ogni famiglia cristiana è mista. Qui cattolici e non cattolici si sposano tra loro tranquillamente. Nessun sacerdote o vescovo a Gerusalemme saprà mai, durante le celebrazioni, chi è chi. La gente qui sente la comune appartenenza cristiana come la sola priorità e fatica a comprendere le nostre divisioni. Si capiscono le diverse tradizioni rituali, ma non la separazione tra le diverse Chiese. Da pochi mesi, la Chiesa cattolica ha pubblicato una guida pastorale ecumenica proprio per orientare a vivere bene questa convivenza inter-ecclesiale.

Gerusalemme, questo grande e particolare mosaico, e soprattutto il Santo Sepolcro, unico condominio ecumenico al mondo, ci ricordano che ci apparteniamo e che non possiamo fare nulla da soli. Noi uomini di Chiesa e di questo mondo, ci siamo divisi e combattuti per secoli. Ma qui quel Signore Gesù, nel nome del quale ci siamo combattuti l’un l’altro, si è divertito a metterci insieme e a costringerci, nostro malgrado, a non poter fare nulla senza il consenso dell’altro.

Forse è proprio questo l’insegnamento, faticoso e affascinante, che Gerusalemme può lasciare al resto del mondo.

di Pierbattista Pizzaballa
Patriarca di Gerusalemme dei latini