La buona notizia
Il Vangelo della XXIX domenica del Tempo Ordinario

Senza stancarsi mai

 Senza stancarsi mai  QUO-233
11 ottobre 2022

Nella xxix domenica del Tempo Ordinario dell’anno c , l’evangelista Luca, il più attento a registrare i momenti oranti del ministero di Gesù, consegna alla sua comunità e a noi lettori e lettrici di oggi una parabola sulla “necessità di pregare sempre”. Pregare non è un’attività fra le altre, ma la preparazione, la base e l’atmosfera di ogni nostra azione. Pregare è anche il motore del ministero di Gesù, come si vede chiaramente a partire dall’evento del suo battesimo al Giordano (cfr. Luca, 3,21), è il dinamismo della sua esistenza filiale che attrae i suoi discepoli e suscita in loro il desiderio di imparare a pregare (cfr. Luca, 11,1). Luca racconta che Gesù si ritira spesso a pregare in luoghi deserti (cfr. Luca, 5, 16; 9, 18) e che spesso sale sul monte e trascorre l’intera nottata a pregare (cfr. Luca, 6, 12). L’evento della trasfigurazione, momento epifanico della vita di Cristo, accade, ad esempio, all’interno di un momento di prolungata orazione (cfr. Luca, 9, 28). Vegliare e pregare è il binomio necessario che fa della vita dei discepoli e delle discepole di Gesù il viaggio verso il Volto dei volti, un pellegrinaggio che ha per meta stare dinanzi al volto del Figlio dell’uomo (cfr. Luca, 21, 36).

La parabola che Gesù racconta punta, dunque, a destare nel cuore dei discepoli la passione per la preghiera. Protagonista del racconto è una donna, più precisamente una vedova, che si appella ad un giudice — quindi alla legge degli uomini — per chiedere giustizia contro il suo avversario. Potrebbe trattarsi di pendenze o debiti lasciati dal marito, di ipoteche sul patrimonio o altro. Se il motivo del contendere non viene detto, ciò che invece è messo ben in evidenza è il fatto che la donna, trovandosi in serie difficoltà, decide di ricorrere direttamente ad un giudice, deputato all’interno del corpus sociale a ripristinare la giustizia (in greco dike). Gli chiede di farle giustizia (in greco ekdikéo) di fronte a qualcuno con cui è in conflitto sul piano della giustizia, un antidíkos.

La persona interpellata per risolvere la controversia è però un giudice che non teme Dio, cioè non è un uomo religioso, e che non ha riguardo per nessuno, cioè non rispetta gli altri e nemmeno li considera. È un “uomo senza fede e senza legge” e che Gesù denuncerà come «giudice disonesto, ingiusto» (ho kritès tes adikías). Il giudice, quindi, resiste alle richieste della vedova, mostrandosi poco propenso ad assumere la causa. Dopo un po’, però, pur essendo senza Dio e senza legge, per mettere fine all’insistenza della donna e non essere più importunato, il giudice ingiusto decide finalmente di agire a favore della donna. Ciò che doveva essere il suo pane quotidiano si rivela un’eccezione: fare giustizia. La giustizia, pertanto, gli viene estorta dalla perseveranza di una vedova che non è forte per via dei mezzi di cui dispone ma per il suo senso di giustizia e la sua tenacia.

Gesù tira le debite conseguenze per i suoi discepoli e per noi: se un giudice propenso a boicottare la giustizia può lasciarsi vincere dal grido accorato di una vedova, quanto più farà Dio, difensore dei deboli e degli oppressi, con i suoi eletti che gridano a lui incessantemente dinanzi alle ingiustizie.

La preghiera nasce dunque da un’intima e vitale alleanza con Dio Padre. Eletti e amati dal Padre, possiamo tutti avvicinarci a Lui con piena fiducia, certi che se Dio è per noi niente e nessuno potrà essere contro di noi (cfr. Romani, 8, 30), consapevoli inoltre di avere un interlocutore credibile e veritiero che sa agire prontamente, un vero e proprio Paraclito, un avvocato che si fa nostro vicino per difenderci in ogni situazione della vita.

L’insegnamento si conclude con un grande interrogativo finale: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». La preghiera è questione di fede, interpella la qualità della nostra fede non l’arte retorica con cui sappiamo tessere abilmente le parole e trasformarle persino in armi. Non è una sterile litania che scandisce il passare di un tempo che tutto consuma.

Il “ritardo” dell’intervento di Dio non è dovuto alla sua noncuranza, ma alla sua pazienza che fa spazio alla nostra conversione. La preghiera ha a che fare con l’amore e segue i suoi ritmi di crescita e consolidamento: come l’amore, infatti, pregare è questione di desiderio, è attesa di un incontro tanto agognato, è anelito della pienezza di una comunione senza fine.

di Rosalba Manes