Hic sunt leones
Spazi di competizione e nuovi rischi per le popolazioni autoctone

Africa in tumulto

A man reads a newspaper featuring on the front page a picture of Capitain Ibrahim Traoré, the leader ...
07 ottobre 2022

Le divisioni determinate a livello globale a seguito della crisi armata che insanguina l’Europa orientale stanno manifestandosi sempre più anche nell’Africa subsahariana.

È proprio di questi giorni la dichiarazione di Vedant Patel, portavoce del Dipartimento di Stato Usa, il quale ha messo in guardia la nuova giunta al potere in Burkina Faso dai rischi di un’alleanza con la Russia, il cui gruppo paramilitare Wagner ha mostrato un forte sostegno agli autori dell’ultimo colpo di stato. Infatti, la sera del 30 settembre scorso è stato deposto il precedente leader golpista, il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba, salito al potere lo scorso gennaio, con l’accusa di non aver mantenuto la promessa di reprimere l'insurrezione islamista che attanaglia il Burkina Faso dal 2015. Al suo posto si è insediato il trentaquattrenne capitano Ibrahim Traoré. Classe 1988, è di fatto il più giovane capo di stato africano, precedendo anagraficamente altri due leader golpisti: il colonnello guineano Mamady Doumbouya, classe 1981, e il colonnello maliano Assimi Goïta, classe 1983. Da rilevare che a seguito dell’ascesa al potere di Traoré, il fondatore del gruppo Wagner, Yevgeny Viktorovich Prigozhin, ha annunciato in un post sui social network di sostenere il capitano Ibrahim Traoré e i suoi uomini, che «hanno fatto ciò che era necessario (…) per il bene del loro popolo». Motivo per cui gli Stati Uniti, attraverso il portavoce del Dipartimento di Stato, hanno espresso preoccupazione per quanto sta avvenendo in Burkina Faso: «I Paesi in cui è stato schierato il gruppo [Wagner] sono lasciati indeboliti e meno sicuri, e lo abbiamo visto in diversi casi solo in Africa», precisando che occorre evitare un ulteriore deterioramento della situazione nel Paese saheliano: «Condanniamo qualsiasi tentativo di peggiorare l’attuale situazione in Burkina Faso e incoraggiamo vivamente il nuovo governo di transizione ad aderire al calendario concordato per il ritorno a un governo civile democraticamente eletto», ha aggiunto.

Non è un caso se martedì 4 ottobre alcune decine di manifestanti sono scesi in piazza nella capitale burkinabé Ouagadougou, scandendo slogan a favore della Russia e critici nei confronti della ex potenza coloniale francese. Durante il suo breve periodo al potere, il tenente colonnello Damiba non è riuscito a contrastare efficacemente i militanti islamisti i quali si sono impadroniti di vaste aree rurali, circondando in molti casi i centri abitati e lasciando ai militari burkinabé il controllo di solo il 60 per cento del Paese, secondo alcune stime della società civile. Il colpo di stato comandato da Traoré è l’ultimo di una lunga serie che da un paio d’anni interessano l’Africa subasahariana, dal Mali alla Guinea, dal Sudan al Burkina Faso, per non parlare della controversa morte del presidente ciadiano Idris Déby e dell’investitura del figlio Mahamat. È evidente che in un contesto planetario in cui l’attenzione dei grandi player internazionali è concentrata sulla guerra russo-ucraina, quanto sta avvenendo nel continente africano passa inevitabilmente in secondo piano.

Eppure la posta in gioco è alta in quanto la guerra che sta insanguinando l’Ucraina è in qualche modo rivelatrice di una dinamica in corso già da tempo in tutto il continente africano. Una dinamica — è bene precisarlo — che probabilmente è stata sottovalutata per gli effetti che potrebbe avere sugli equilibri internazionali. Occorre infatti considerare che l’Africa è ricca di commodity d’ogni genere, fonti energetiche in primis, che in tempi di recessione economica globale e di manifesta crisi del multilateralismo politico ed economico, rappresentano un fattore destabilizzante, a dir poco letale. A parte la presenza di Wagner in Libia, quello che il governo di Mosca ha portato avanti nei Paesi della macroregione subsahariana si identifica oggi, in molti casi, come supporto spiccatamente militare nei vari teatri di crisi, come nel caso della Repubblica Centrafricana o del Mali.

In gergo tecnico si tratta di una sorta di «conflict management» spesso criticato negli ambienti diplomatici ma anche nei circoli della società civile in quanto anziché favorire politiche negoziali, le ostacola, minacciando non solo il raggiungimento di una stabilità in questi contesti, ma anche gli interessi occidentali. Secondo Human Rights Watch (Hrw), nei mesi scorsi, «Il governo di transizione ha sempre più limitato la missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, la Missione di stabilizzazione integrata multidimensionale delle Nazioni Unite nel Paese. Ha escluso le forze di pace dalle aree in cui le forze governative erano coinvolte in operazioni abusive, come la città di Moura, dove Human Rights Watch ha documentato gravi abusi a marzo da parte dell'esercito maliano e di soldati stranieri identificati come combattenti russi» (https://www.hrw.org/news/2022/08/09/mali-rights-reforms-crucial-civilian-rule). Le autorità russe hanno naturalmente sempre respinto queste accuse, stigmatizzando invece le ingerenze di matrice neocoloniale in Africa. E' bene rammentare che Sergei Lavrov, ministro degli esteri russo, ha ribadito in più circostanze la posizione ufficiale di Mosca secondo cui Wagner «non ha nulla a che fare con lo Stato russo». Una cosa è certa: come ai tempi della Guerra fredda, i paesi africani rischiano non solo di divenire spazi di competizione tra Oriente e Occidente, ma teatri dove a pagare il prezzo più alto saranno le popolazioni autoctone. In ogni caso, qualsiasi potrà essere la portata delle azioni militari e diplomatiche russe nella macroregione, quello che appare evidente è che, almeno per il momento, le prospettive di cooperazione tra russi e attori occidentali sono compromesse.

Occorre comunque evidenziare, stando a fonti diplomatiche, che in questi ultimi mesi alcuni contingenti della Wagner sarebbero stati ritirati da alcune zone operative africane per dare manforte all’esercito russo impegnato in Ucraina. Rimane il fatto che di fronte a questo scenario africano, non deve venire meno il dialogo diplomatico dell’Occidente con il Cremlino, non solo in riferimento alla guerra russo-ucraina, ma anche in riferimento alle crisi in atto nell’Africa subsahariana; un dialogo che è sì difficile, ma indispensabile.

È impossibile fare previsioni guardando al futuro, visto il perdurare delle forti tensioni tra i Paesi occidentali e la Russia, ciò non toglie che è interesse dell’Europa guardare all’Africa non solo per opportunità in considerazione della devastante crisi energetica scatenata dalla speculazione finanziaria. Gli interrogativi posti dalla presenza di formazioni jihadiste nella fascia saheliana, nel Corno d’Africa e addirittura nel nord del Mozambico contribuiscono a definire un quadro macroregionale aleatorio e volatile, dove i movimenti islamisti insediati nelle zone rurali sono pronti a capitalizzare la rabbia popolare e rilanciare la loro sfida ai sistemi di potere in carica.

Inoltre, l’onda lunga della crisi pandemica e le incertezze sulla ripresa post-pandemia rischiano di prolungare il malcontento pregiudicando l’agognato riscatto, all’insegna della sicurezza e dello sviluppo. Scenari di povertà, conflitto ed alienazione così profondi, dove la migrazione come via di fuga o l’adesione alla militanza violenta sembrano essere le uniche alternative possibili, richiedono una maggiore assunzione di responsabilità da parte di tutti.

di Giulio Albanese