Bailamme

Nelle «trincee fonde
dei cuori»

 Nelle «trincee fonde dei cuori»  QUO-224
30 settembre 2022

Cento anni fa, in una dimessa edizione in brossura di quaranta pagine, vedevano la luce i Canti anonimi raccolti da Clemente Rebora: nove liriche, più o meno trecento versi, che il poeta milanese decise di pubblicare a sette anni di distanza dalla sua esperienza bellica sul fronte goriziano, dove, nel dicembre 1915, in seguito all’esplosione di un proiettile di obice, rimase sepolto sotto una frana riversatasi nella trincea, subendo un pesante trauma cranico. La terribile deflagrazione risuonò a lungo nel suo cuore, come il ricordo dei mesi di guerra e dell’«inenarrabile tragicità degli anonimi divini cuori travolti» che aveva cantato in poesie e prose dedicate a «quel tremendo festino di Moloch», programmando di raccoglierle in un libro.

In seguito rinunciò al progetto, perché «l’orrore istintivo contro la violenza, la forza brutale sotto apparenze civili e santificata di giustificazioni elevate, mi aveva angosciato sino a intossicarmi la coscienza del dovere». Ma in quell’«esile capolavoro» — per usare l’espressione di Andrea Cortellessa nel suo saggio sui poeti italiani nel primo conflitto mondiale Le notti chiare erano tutte un’alba — la guerra è evocata nell’immagine delle «trincee fonde dei cuori» umani: «Il cuor che nell’uomo / Se va in basso è una bomba / Esplode a un ostacolo duro / E fa del presente una tomba». La ferita originaria dello «scordato strumento», dello «straziato paese», come lo definirono altri due combattenti della Grande Guerra, Montale e Ungaretti, sanguina ancora silenziosamente nei Canti del 1922, il cui autore era stato «carne anonima di fanteria» che «non sa, non sapeva e marcia e si posa e s’apposta, perché così vuole qualcuno o qualcosa, perché si deve, si fa, non si sa — per contro un nemico, il nemico ch’è fuori, il nemico che è noi».

Nel 1936 Rebora fu ordinato sacerdote, e poté innalzare il pane consacrato, la «salutaris hostia» dell’inno liturgico, che anche lui avrà probabilmente intonato molte volte, in cui le si chiede forza e aiuto perché «bella premunt hostilia», «ci incalzano aspre battaglie». Il canto anonimo del popolo cristiano si fa, oggi come allora, preghiera a Chi, solo, può guarire il cuore ferito dell’uomo.

di Paolo Mattei