Una vita “linearmente complicata”

 Una vita   “linearmente complicata”  ODS-003
01 ottobre 2022

«Io la chiamo “mamma solitudine”. È la compagna di chi vive sulla strada, l’amica di tutta la vita. È lei che detta le regole. Perché, vedi, quando stai sulla strada nessuno ti cerca, nessuno ti parla, nessuno nemmeno ti vede. Diventi invisibile. Dietro “mamma solitudine” ci può essere di tutto: l’alcool, per esempio, che è veramente un pericolo tremendo, oppure un momento di crisi, una scivolata, basta poco, e ti ritrovi senza più niente e nessuno».

«E a te», gli chiedo, «a te come è andata?». Sergio Calvello si gratta il pizzetto, ci pensa un po’ su prima di rispondere, poi si stringe nelle spalle. «Ero lontano da casa, avevo perso mamma e papà, considera che ero legato in modo morboso a mia madre, avevo più di sessant’anni, sono andato un po’… diciamo che ho avuto uno sbandamento e mi sono ritrovato sulla strada». In apparenza, una storia come tante altre. Ma Sergio, poi, superata la comprensibile, umana diffidenza, ci metterà pochi minuti a scendere più nel dettaglio: «la verità è che sono sempre stato un girovago, io una casa l’avevo, l’ho lasciata alle mie figlie, questione economica, in fondo. E siccome sono stato sempre un girovago, mi è sempre piaciuto, dai, sulla strada ci sono stato undici anni. Undici anni» ripete, e sembra assaporare il ricordo con un’accettazione disarmante, con una serenità quasi da antico filosofo: sì, la strada è il regno di “mamma solitudine”, sì, la strada può essere crudele, ma può anche darti consolazione, amicizia, «e alla fine, alla fine» — ripete — «non ci stai undici anni se non diventa un po’ la tua strada».

Magari momenti duri ne avrà vissuti tanti, Sergio, ma nelle sue corde non ci sono né lamentela, né rassegnazione. Quello che percepisco in lui è una consapevolezza matura che mi stupisce, la serenità di chi ha saputo fare i conti con la propria esistenza e oggi sa come restituirla, sotto forma di esperienza, di racconto. Di storia.

E di storie ne ha da raccontare, questo ottantenne snello, nervoso, dal volto intelligente e scavato — «sono nato lo stesso giorno del presidente Mattarella», puntualizza. Per incontrare «quello di Romanzo Criminale, io la conosco» — ha esordito con un “lei” che presto, per fortuna, è passato reciprocamente al “tu”, «perché ho conosciuto Michele Placido, a me è sempre piaciuta l’arte, la cultura» — Sergio si è profumato come per una “prima” a teatro e ha scelto una stiratissima maglietta color arancione. Un manifesto orgoglioso, a ben vedere: «la strada è lontana, la strada è alle mie spalle. La strada è un pezzo di un altro tempo. E ora te la racconto».

«Sono nato su un treno», ironizza, «nel senso che sono originario del varesotto, ma dopo pochi giorni mio padre ci ha portati in Toscana, a Castagneto Carducci, e da allora sono diventato per tutti “Il Livornese”. Sia quando stavo all’estero che sulla strada. All’estero ci sono stato spesso. Nei paesi arabi, Algeria, Nigeria, Guinea. Ci ho lavorato come tecnico di raffineria. In fondo, sono stato un po’ collega di papa Wojtyła, anche lui per un periodo ha fatto il chimico…».

Siamo nel giardino della Comunità di Accoglienza Pietro e Beatrice Isabelli. A mettermi in contatto con Sergio è stato Piero di Domenicantonio, e si sa che a uno spirito nobile come lui è impossibile dire di no. Ci ha accolti Tonino Sammarone della Comunità di Sant’Egidio. La casa, dono di una famiglia di filantropi, è strutturata su appartamenti che ospitano ex-senza fissa dimora e anziani non autosufficienti. «Ce ne sta uno nuovo proprio qua fuori», informa Sergio: «sono un paio di settimane che si butta su una panchina. Mi sa che devo andarci a parlare». Per capire, per vedere se si può dare una mano. «Dev’essere straniero, chissà che vita ha fatto».

Chiedo a Sergio di tornare alla sua, di vita. Non si fa pregare. «Ho studiato al Nautico, ma ho lasciato dopo tre anni. Sono sempre stato uno un po’… mi piaceva fare di testa mia, diciamo. Il periodo più bello è stato in Tunisia, ci sono rimasto due anni, lavoravo con un imprenditore italiano. Poi, in Catalogna, a Castelldefels, ho lavorato come istruttore di equitazione. Andavo a cavallo, li preparavo per le gare a ostacoli. Qua a Roma ho fatto teatro, abbiamo messo in scena un testo di Baricco, col suo permesso». Immagino che sia accaduto dopo aver lasciato la strada. Lui conferma. Piero gli chiede di raccontare della Legione Straniera. Qui sono sinceramente sorpreso. Sergio non mi pare il tipo del nerboruto legionario con la faccia tagliata. «E infatti», ride, «mi ci sono presentato un po’ per scherzo, così mingherlino come sono, dico, mica mi prenderanno, e invece… si vede che stavano a corto di gente… Mi sono reso subito conto che non faceva per me. Il problema con la legione è che non puoi andartene come ti pare. Puoi solo scappare. Poi una volta dopo un lancio col paracadute, mi sono ricoverato in infermeria, mi sono accordato con uno che lavorava là e sono scappato. Per non farmi prendere, sai che ho fatto? Invece di nascondermi da qualche parte — alla fine ti beccano sempre se fai così — sono entrato nel Forte, in caserma, in pratica, con la faccia di bronzo, e sono uscito dall’altra parte. Indifferente. Non se l’aspettavano. E sono tornato libero…».

La libertà. La libertà come valore principale. Sergio ha lavorato nel Club Méditerranée, ma anche lì, a un certo punto, ha mollato. «È per questa questione della libertà», mi spiega lucidamente “che tanti, pur avendone la possibilità, non lasciano la strada, ma ci restano. Nei centri di accoglienza devi rispettare certe regole, anche qui, e noi le rispettiamo tutti… ma vivere nelle abitazioni può creare qualche problema… chi è insofferente non si rassegna».

Di una cosa si vanta: non è mai stato un fuorilegge. Mai. E ha sempre lavorato. «Anche a villa Borghese, aiutavo quelli del noleggio biciclette, mi davano soldi da maneggiare, non ho mai rubato una lira, si fidavano tutti di me». Sospetto — anche se lui non lo ammetterà mai — che Sergio sia stato a lungo, lui per primo allergico alle regole. Si era però costruito, mi dice, una sua “morale” della strada. Insieme ad altri che, allo stesso modo, facevano “comunità”. «Sulla strada sei solo, a volte disperato. C’è un forte bisogno di solidarietà. A volte si riesce a trovarla. Non sempre». Una morale da zingaro felice — almeno per come la racconta oggi. Finché un giorno non resta vittima di un brutale pestaggio, finisce in ospedale, entra in contatto coi volontari, e piano piano accetta — non mi viene un altro termine: accetta, perché immagino che sia stato proprio convinto a lasciarla, ’sta strada tanto amata e a volte odiata —, accetta di tornare “stanziale”.

Non so da quanto va avanti la nostra chiacchiera — Sergio parla e io prendo freneticamente appunti — quando un batuffolo di peli fa irruzione. È un cucciolo di barboncino color champagne. Si chiama Mia. «È il cane della signora Anna», sorride Sergio. Anna è un’altra residente della comunità. Siede poco distante, preoccupata che Mia dia noia. La rassicuriamo. Mi racconta che era molto triste dopo la perdita del suo amato cagnolino. Mia è il regalo di Natale degli altri ospiti e dei volontari. E, a quanto pare, trova molto appetitoso l’orlo dei miei calzoni! Chiedo a Sergio se anche lui abbia contribuito al dono per la signora Anna. «Si capisce! Io ho la mia pensione!», proclama, e riaffiora l’orgoglio che ormai non si sforza più di contenere. «Ma pensa», aggiunge con un altro dei suoi sorrisi disarmanti, «che non sapevo di averla, e quando è arrivata sono arrivati otto anni di arretrati tutti insieme, in pratica non ero mai stato così ricco in vita mia!». La spiegazione dei dettagli è sorprendente. A Sergio la pensione non poteva essere liquidata perché, in quanto sfd , non aveva residenza. Poi il Comune gliene ha assegnata una in via Modesta Valenti. Un indirizzo che non esiste fisicamente, è solo virtuale, serve a identificare, fornire un documento, aiutare chi sta sulla strada o l’ha lasciata, ma non ha una “sua” dimora, come Sergio. È il frutto di un accordo virtuoso fra la Comunità di Sant’Egidio e il Comune ai tempi del sindaco Rutelli. Modesta Valenti era una sfd morta di stenti, una donna che nessuno era stato in grado di aiutare. «Potrebbe funzionare meglio», spiega Sergio, e sia Sammarone che Piero concordano. Ci sono intoppi burocratici che si frappongono, e la brutta ombra di una storia giudiziaria di qualche tempo fa, quando dell’indirizzo virtuale si servivano trafficanti senza scrupoli. Niente, però, che una gestione intelligente delle risorse non possa superare. Servirebbero più persone di buona volontà, potremmo dire, senza offendere nessuno.

L’incontro volge al termine. Mia si è stancata dei miei calzoni e, con la sua indomabile, elettrica energia giovanile, sta allegramente devastando un’aiola fiorita. Dipendesse da lui, Sergio andrebbe avanti per ore. C’è ancora tempo per «quella volta che io e mio padre abbiamo lavorato con un architetto americano, un mezzo matto, ma s’era innamorato di noi… dovevamo costruire lo yacht del presidente Kennedy… ma poi non se ne fece più niente…». Sarà vero? Sergio coglie forse un lampo di scetticismo nel mio sguardo. Giura che è tutto vero. «La mia è stata una vita linearmente complicata», ironizza, e io alzo le braccia: vero, semivero, più o meno vero… importa poi davvero? Sono storie, le sue storie, ed è importante ascoltarle. Fa bene a lui, ma fa soprattutto bene a noi, che le sentiamo un po’ nostre.

L’ultima battuta è per Papa Francesco. Spunta una foto con Sergio accanto al Papa. «Sai quando ha regalato le lavatrici a San Gallicano? Io ho detto: “Santità, posso farle vedere la lavanderia?” Lui ha capito che volevo dire qualcos’altro, e mi dice: “Che posso fare?”. E io: “Ce ne dia ancora!”». E con una risata e una stretta di mano ci salutiamo.

p.s. — Più tardi, Piero mi racconta che Sergio aveva distribuito in piazza San Pietro un bel po’ di copie del primo numero di questo giornale, e poi si era presentato da lui con il ricavato. «Ma, Sergio, tienili per te, erano questi gli accordi». «E che me ne faccio? Io ho pure troppo. Dalli a qualcuno che ne ha veramente bisogno».

di Sergio Calvello e Giancarlo De Cataldo