Sulla porta di casa Alireza e la sua storia

Il caffè più buono della mia vita

 Il  caffè  più buono della mia vita  ODS-003
01 ottobre 2022

Nella sede romana del progetto “Mediterranea — alle radici della terra del rifugiato” vige la ricerca del silenzio e della pace, la riscoperta delle radici nel rispetto del creato e degli uomini che parlano lingue diverse e trovano accoglienza. Tutto questo si traduce in un’oasi di pace nel cuore di Roma.

È qui che incontro, in un caldo pomeriggio d’estate, Alireza, 48 anni, fuggito cinque anni fa dall’Iran, anche se preferisce usare l’antico nome Persia. Un rifugiato politico. Un richiedente asilo.

La struttura alle nostre spalle è vecchia ormai di qualche anno, ma più che dignitosa. Intorno a noi il verde tipico delle ville della città eterna. Davanti a me gli occhi che sembrano quelli di un ragazzo curioso con tanta voglia di vivere. Seduti, con davanti un semplice tavolo di legno, con Giuliano Crepaldi, presidente della San Vincenzo di Roma.

Tre uomini, tre esperienze di vita, tre racconti diversi uniti da un unico ponte che porta un semplice nome. Una umanità che collega e che dà la linea a quello che sta avvenendo in questo pomeriggio d’estate.

Alireza si arrotola una semplice sigaretta prima di rispondere alla domanda: «Da quando sei nel nostro paese?». «Cinque anni fa sono arrivato dalla capitale dell’Iran in Italia. Era il 2017. Ho chiesto asilo politico appena arrivato all’aeroporto di Fiumicino di Roma». «Perché sei fuggito dal tuo paese?». Sorride, prima di riavvolgere il nastro dei ricordi. Riprende a parlare. No, non sono ricordi. È come fosse ieri, come se fosse appena successo. «Avevo una famiglia, una moglie, i miei genitori anziani che adoravo. Un figlio di pochi anni. Il mio grande piccolo bambino. Un lavoro: una piccola azienda che andava piuttosto bene. Voi direste che ero un imprenditore, un falegname, giusto?».

Si ferma per un istante. Un solo lungo, impercettibile istante. Non è per la lingua italiana che comunque parla piuttosto bene. È un istante fatto di tante cose. Sentimenti, sensazioni. Chiude gli occhi, un leggero movimento della testa. Poi... «Io amo la libertà, la politica, la religione. Un semplice articolo… e la mia vita è cambiata per sempre».

La fuga nella notte. Verso un buio che lo inghiotte. Un ignoto fatto prima di saluti, quando è stato possibile, e poi, in sella ad un cavallo, verso il confine con la Turchia. Sembrerebbe l’inizio di un film che nei titoli di testa spiega: «tratto da una storia vera». Ma è invece la realtà dei nostri giorni.

La sigaretta è sempre lì, tra le sue dita. Un’altra nuvola di fumo. «In Turchia avevo pochi soldi. Ma soprattutto dovevo decidere dove andare. L’Italia, sì, l’Italia. Ne avevo sentito parlare. Il calcio mi è sempre piaciuto». «Ti ha aiutato qualcuno?». Non risponde alla domanda. Va avanti nel racconto. Un biglietto aereo e alcune ore dopo il cielo di Roma. «Quanto era bello quel cielo». Più che una frase sembra un sospiro lieve, rilassato.

«Appena arrivato in aeroporto sono andato dagli agenti. Gli ho detto chi ero e da dove venivo. La fuga dal mio paese, i motivi politici». «Mi hanno fatto delle domande. Per la verità un bel po’ di domande. Poi, uno degli agenti ha detto ad un altro: “Chissà quante ne ha passate!”. Mi ha portato a bere un caffè. Voi in Italia fate un caffè meraviglioso». Si ferma, quasi a sottolineare quel momento. «È stato il caffè più buono della mia vita». Non c’è bisogno di dirlo, ma le parole libertà e salvezza volteggiano attorno a noi come quell’istante di cinque anni fa. Anticipa la mia domanda.

«Tutto, subito dopo, si è svolto in maniera semplice. Altri incontri, altre domande. Sorrisi, accoglienza. Il momento della conoscenza con uomini e donne, con i volontari, coi sacerdoti della San Vincenzo. La cosa incredibile è che sono tornato a fare quasi il lavoro che avevo lasciato». Indica sedie, tavoli, lavori in legno poco distanti.

«Adesso vivo qui con altri rifugiati». Non aspetta che glielo chieda. «Voi italiani siete fantastici. Ho fatto bene a venire qui». Poi arriva la domanda: «E la tua famiglia?». «Io e mia moglie abbiamo divorziato. Ma — e riprende a sorridere come solo un genitore sa fare — mio figlio, il mio piccolo, grande figlio, è qui con me, mi ha raggiunto tre anni fa in Italia. Non è stato facile, ma ci siamo riusciti. Arash vive con me. Ha quindici anni. Capelli lunghi e vuole fare... vuole lavorare, come si dice, vuole fare il programmatore grafico. È molto in gamba».

È un padre orgoglioso del proprio bambino diventato grande. «Cosa hai provato quando l’hai rivisto all’aeroporto di Roma?». Fa il gesto dell’abbraccio. Prima di pronunciare le parole «Un forte abbraccio».

«Alireza, ti manca il tuo paese?». Per un momento sembra far prevalere la nostalgia – l’amore per la propria terra appreso dai genitori, la storia, la cultura… –, ma quando gli chiedo: «Ci torneresti?» la sua risposta è precisa e diretta: «No, non credo».

«Ora, come passi le giornate?». «Vuoi dire oltre al lavoro? Mi piace scrivere poesie, nella mia lingua, la mia antica lingua. Cerco di non dimenticarla mai. Scrivo poesie di tutti i generi. Sull’amore, sulla vita, sui sentimenti e sulla fede. Io credo in Dio, ma non in un Dio nel cui nome si fa del male alle persone».

«Hai mai pensato che non ce l’avresti fatta ad arrivare e vivere in Italia?». «No, mai. Qui mi trovo bene. La gente è sorridente. Mi accetta. Ama parlare così come a me piace parlare. Italiani e iraniani in questo si assomigliano». «Quali sono le cose più importanti per te in una persona?». Fa due gesti con le mani per sottolineare quello che sta per dire: «Il coraggio e l’amore».

Guardo il presidente della San Vincenzo di Roma, Giuliano Crepaldi, che fa un cenno d’assenso con la testa. Un bel sì. Un ponte che unisce due umanità. «Ti posso fare un’ultima domanda?». «Se tornassi indietro di vent’anni, cosa faresti?». Alireza assume un’aria serena, ma decisa allo stesso tempo. «Non ci crederai, ma quel cancello laggiù, questa casa alle nostre spalle, tutto quello che ci circonda, gli alberi, la natura… io l’ho già visto nei miei sogni e lo rivedo ogni giorno che passa». Torna a sorridere mentre si alza. Forse il titolo giusto di questo incontro sarebbe racchiuso in un’unica parola: Umanità. «Grazie Alireza. Grazie alla San Vincenzo che ha reso possibile questo incontro. E non dimenticare di salutarci il tuo piccolo grande figlio Arash. Un forte abbraccio».

di Roberto Milone