La buona Notizia
Il Vangelo della XXVII domenica del tempo ordinario (Lc 17, 5-10)

Se aveste fede...

 Se aveste fede...  QUO-221
27 settembre 2022

La fede sradica. La fede trapianta e rigenera. Un albero nel mare. La croce in Paradiso. La morte nella vita. Le fede rende visibile ciò che non si vede. Perché è ipostasi, che sta sotto e dà sostegno, il cuore della realtà. La sostanza che le restituisce vita e significato.

C’è un albero al centro dello sguardo di Gesù. Di quello sguardo che punta deciso verso Gerusalemme. E tutto vede con gli occhi del Padre. C’è un albero. Simbolo della vita. Un sicomoro. Radicato e possente. Simbolo dell’immortalità. Sta ritto sul suo tronco imponente e distende i suoi rami fra il cielo e la terra. Gesù lo vede con gli occhi del Padre. Nel già di Dio dove tutto è compiuto. Gesù lo vede. È l’albero della vita. Spezzato da Adamo. Sradicato dal Calvario. Trapiantato in Paradiso. Gesù lo vede. Ne avverte il mormorio delle foglie. E in quel sussurro. Nel non ancora dell’uomo dove tutto è da compiersi. Resta sospesa una preghiera. «Aumenta la nostra fede». Gesù la ascolta. Guarda nei cuori.

E ai piedi dell’albero. Non c’è nessuno. Se non uno soltanto e alcune donne. Se aveste fede, risponde. E indica l’albero. Forma e figura della croce. Misura della fede. Sorgente della Vita. Se aveste fede. Se palpitasse in voi il seme impercettibile che fa vedere il mondo con gli occhi di Dio. Riconoscereste in quest’albero la vita e nel legno della croce la resurrezione. Se aveste fede. Ne basterebbe un granello e crescerebbe in voi un albero robusto. Il legno su cui resta inchiodata la morte. E il male radicato nel cuore dell’uomo. Se aveste fede. E Gesù indica l’albero. Per imprimere nei cuori il sigillo della croce. Su cui pende l’autore e il perfezionatore della fede. Lo indica. Per insegnare a guardare. Con gli occhi di Dio. E a parlare. Con la potenza delle sue parole. «Sradicati e vai a piantarti nel mare».

Non è un prodigio senza senso e senza scopo. Ma un segno. Per allargare nello stupore gli sguardi. E spingerli oltre. Fino a dove la realtà obbedisce alla fede. Perché scopre in essa il suo mistero più profondo. La sua piena realizzazione. Fino a dove della realtà resta solo la vita. Perché la fede sradica la morte. Non è un prodigio. Ma la verità della croce. E — se aveste fede in essa — potreste dire al vostro cuore con tutto ciò che di marcio vi ha messo radici: sradicati e vai a piantarti nel mare della Vita. Lo gran mar de l’essere, che bagna il Paradiso — di Dante ma non solo. Ed esso vi obbedirebbe. Perché, diceva Peguy, la Fede vede quello che è./ Nel Tempo e nell’Eternità. Quello che è. Un albero. La croce. La resurrezione e la vita. Quello che è. Un Dio che si fa servo.

E dopo aver arato nei campi del mondo sotto il peso della nostra umanità. Dopo aver pascolato il gregge disperso e ferito dal male. Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo. Prepara da mangiare. Se stesso. “Stringiti le vesti ai fianchi”. Praecinge te, dispone il padrone. E, preso un asciugatoio, praecinxit se, obbedisce il servo. Se aveste fede. Vedreste in quel padrone il Padre. E in quel servo il Figlio. In quel padrone la giustizia di Dio. Che chiede ciò che è dovuto. In quel servo l’Amore divino. Che nutre e disseta la giustizia. Finché non ci sia più bisogno di nulla. Finché tutti i debiti siano pagati. E potremo sedere anche noi al banchetto. Servi già sazi.

Servi. Non di cui non c’è bisogno. Ma che non hanno bisogno di nulla. Di nessuna ricompensa. Pienamente felici. Immersi in un disegno d’amore. In cui unico cibo è fare la volontà del Padre. Gesù guarda l’albero. Vede il Servo che quella volontà l’ha compiuta fino in fondo. Lo lacera il dolore. Ne respira la libertà. Se aveste fede. Potreste dare la vostra vita e dire. Abbiamo fatto ciò di cui eravamo debitori. Abbiamo servito per amore. Ed ora la nostra gioia è senza fine. Perché un solo debito resta. Quello dell’amore vicendevole. Se aveste fede. Potreste dire alla vostra vita. Offriti per amore dei fratelli. Ed essa vi ascolterebbe. Ed in quel giorno non mi domanderete più nulla.

di Enza Ricciardi