Reportage: La rete della solidarietà creata da missionari e volontari nel Paese latinoamericano

La trama del Perú
Dritto e rovescio

 La trama del Perú Dritto e rovescio  QUO-219
24 settembre 2022

Non è facile riconoscere i fili che corrono nell’intreccio della complessa tela della realtà peruviana. Il dritto mostra colori brillanti, quelli dei tessuti tradizionali, associabili al mestizaje, sintesi culturale della millenaria storia del Perú. Il dritto è la bellezza policromatica dell’articolata geografia del Paese: tra Oceano Pacifico, vette delle Ande e bacino amazzonico. È noto anche ai turisti che visitano il Machu Picchu e i siti archeologici della regione che circonda l’antica città inca. Il rovescio della trama, invece, non è bello, sono in pochi a volerlo osservare, ma mostra l’intreccio dei fili. Non sfugge all’attenzione della Chiesa, preoccupata della crisi politica, sociale, economica e morale del Perú. Rovescio nel quale si riflette anche il grigio del cielo della capitale peruviana.

Lima-Perú: il “muro della vergogna” abbattuto da un altro muro


A Lima esiste “il muro della vergogna”, segno di demarcazione netta tra ricchi e poveri. Dieci km di cemento e filo spinato, in cima a una collina invalicabile, nascondono la baraccopoli della Peruanidad, in Pamplona, al ricco quartiere Las Casuarinas. «Trent’anni fa si è cercato di arrivare a un compromesso con una separazione di alberi, ma non ci si è riusciti — spiega Juana Gutierrez, madre di cinque figli, ex dirigente in Pamplona — È un muro fatto per proteggersi dalle invasioni, comunque segna la grande differenza tra chi ha e chi non ha, come noi». Da una delle estremità del muro che raggiungo scalando terra, vedo spegnarsi i colori, lì dove vive la popolazione povera originaria delle Ande, dell’Amazzonia o di alcune zone della Costa. Peruanidad, termine usato dai colti per la riflessione su quanto unisce i peruviani, qui definisce la zona di estrema povertà dalla quale si può toccare la piaga della disuguaglianza. A Lima, però, è in costruzione anche un altro muro. Abbatte il “muro della vergogna”. È Juana a mostrarmelo, arrivando in un altro insediamento umano: «Questo ci protegge; l’altro ci divide. Stiamo costruendo il muro di contenimento di Portada del Sol, insieme ai missionari e ad Alejandro, responsabile Bridges. Mi riempie di gioia lavorare con loro». Il suo viso si apre a un sorriso. È un istante. «Non abbiamo acqua e scarichi in tutta la Nueva Rinconada. Solo alcuni settori hanno la luce. Io devo comprarla e ogni mese spendo 160 soles. È molto caro». Per Diego Vega, missionario limeño che vive dall’altra parte del “muro della vergogna”, «è stato scioccante incontrare persone che sopravvivono senza acqua ed elettricità». La denuncia più significativa è il cuore della sua esperienza: «Da queste persone mi sono sentito amato. Al di là del supporto materiale, è fondamentale la condivisione. Al mattino lavoriamo; nel pomeriggio giochiamo con i bambini, visitiamo le famiglie, facciamo catechesi; la sera vediamo un film. Cerchiamo di costruire ponti tra i missionari universitari di tutto il mondo, i nostri vicini e i volontari peruviani». Alejandro Molina, direttore della ong di ispirazione cattolica, sottolinea che «in Bridges, persone della parte ricca e della parte povera si incontrano. Bridges diventa spazio di riconciliazione». Lui è il primo a sporcarsi le mani. «Non è sempre facile aiutare i poveri. La prima cosa che ho fatto è conoscere le persone per capire come mettermi al loro servizio. Le dinamiche interne sono complesse. La comunità in cui lavoriamo, Portada del Sol, negli ultimi anni si è divisa a causa di interessi economici. Parte della nostra missione, quindi, consiste nel favorirne la riconciliazione. Essendo originario della Colombia, so che i poveri possono anche uccidere per soldi e una piaga peruviana è la corruzione. A Pamplona, in particolare, ci sono i trafficanti di terreni, mafiosi locali che vendono terra incolta appartenente allo Stato. Possono farlo attraverso tentacoli all’interno dei comuni e della polizia con i quali si spartiscono benefici». Alejandro denuncia con coraggio un’altra ingiustizia ai danni dei più poveri: «Pagano l’acqua più dei ricchi perché il sistema di distribuzione è privato. Non possono lavarsi, si limitano a bagnarsi testa e viso». Nel cuore porto l’immagine di un viso, quello di una bimba di pochi mesi in braccio al padre, a pochi metri dal “muro della vergogna”. Lui è un artigiano della Peruanidad. Fa una sola richiesta: «Che venga il governo e si preoccupi di noi. Ci dia strade, acqua potabile e luce». Su questo spaccato di umanità vedo aprirsi una finestra, quella di una baracca. Intravedo un ostensorio con il Santissimo, di fronte al quale pregano tutti insieme. Riconosco la “scandalosa” reale presenza di Gesù Cristo, anche lì.

Fe y alegría, risposta a emergenza educativa e promozione sociale


«Fe y Alegría comincia dove termina l’asfalto…» è l’eco in risposta al soffocato grido di aiuto di quanti lottano, quotidianamente, per una vita più degna nelle zone periferiche o rurali dove si respira terra. Dalla Portada del Sol di Pamplona riesco a distinguere il collegio Fe y alegría ‘65. Una delle ottanta istituzioni del Movimento di educazione popolare e promozione sociale globale vincolato alla Compagnia di Gesù, presente in Perú dal 1966. «Il Perú è un problema, ma è anche una possibilità. E l’educazione pubblica di qualità per tutti, soprattutto per i più poveri, rappresenta una grande possibilità di riscatto». Padre Ernesto Cavassa sj , direttore generale dei collegi Fe y alegría in Perú, citando lo storico Jorge Basadre, ex ministro dell’Educazione, riesce a sciogliere dei nodi della complessa trama del Paese, a partire dalla sua esperienza di educatore. Una vocazione scoperta a 24 anni, in missione, «insegnando a leggere e a scrivere ad analfabeti. Uno di loro mi ringraziò per averlo fatto sentire persona. In quel momento ho capito chi ero chiamato ad essere nella mia vita». È un ricordo ancora vivo in padre Ernesto e rivela la «fame di dignità» di chi vive nella miseria, delle persone con le quali lui è felice di camminare a fianco, difendendone diritti fondamentali, continuando la missione iniziata in Venezuela da padre José María Vélaz e dalla coppia di sposi Abraham Reyes e Patricia García, dei quali è aperta la causa di beatificazione. «Desideriamo formare cittadini giusti, solidali e impegnati nella trasformazione della società». Ma non solo. Di fronte alla crisi socio-ambientale, Fe y alegría si è impegnata anche nella sfida dell’ecologia integrale «per integrare cura della persona — sensibilizzando anche all’uguaglianza di genere — cura dell’ambiente e della società in cui la persona vive».

Gli “invisibili” del Cottolengo


«Che cos’è il Cottolengo?» Non è una domanda retorica sull’opera di carità che in Italia non ha bisogno di presentazioni. È l’interrogativo di un’alta percentuale di abitanti della capitale, per la quale le persone con disabilità«sono invisibili». La commovente storia di Juan Pablo è la risposta. «È stato trovato nella spazzatura, appena nato». È Sr. Fiordalise del Verbo incarnato che gestisce l’Istituto, ad aprirmi il cuore. Un cuore di chi si è fatta madre di bambini e bambini con gravi disabilità psichiche e fisiche. «Juan Pablito era microcefalo, non vedente e muto. In ospedale dissero che non sarebbe sopravvissuto più di due settimane. Così, pensando a un luogo degno dove farlo morire, lo hanno portato al Cottolengo. Ci siamo prese cura di lui e Juan Pablito non è morto né dopo una settimana, né dopo due settimane. Ha vissuto tre anni. Un miracolo chiamato Giovanni Paolo, come il Papa santo». «Juan Pablito — interviene la volontaria Daniela Vargas, avvocato — è stato motivo di conversione per chi lo ha conosciuto». Anche di una sua amica medico. «La prima volta che Jaquelin lo vide, mi chiese: “Perché non lo lasciate morire? State prolungando la sua sofferenza”. Risposi che non era così. Se ne rese conto più tardi». Anche Daniela era atea, «ho conosciuto Dio all’Università Cattolica San Pablo che mi ha messo in contatto con il Cottolengo, dove mi ha incantata l’esperienza della Provvidenza». Anche in eventi drammatici e imprevisti come quello di un incendio. È trascorso un anno, ma il ricordo è ancora vivo. «Ha distrutto tutto ed è morta una nostra bambina». Piange. «La generosità della gente che ha aiutato a ricostruire la Casa è stata la risposta a quella tragedia». Oggi il Cottolengo di Arequipa — scuola, abitazioni e centro di riabilitazione — è sorprendentemente accogliente. Le camere delle bambine sono colorate e arredate come abitazioni di un castello delle favole. Forse per cercare di restituire l’infanzia rubata a molte di loro «abusate e messe incinta dal padre, come avviene di frequente tra le mura domestiche di zone rurali». È l’agghiacciante denuncia di Daniela. Tra le cause: «Cultura machista, scarso senso di filiazione, mancanza di educazione, miseria, alcolismo e omertà delle mogli degli abusatori, madri delle abusate». È straziante. Abbraccio una delle vittime che ha il timido sorriso di chi sta ricominciando a vivere custodita dall’amore. «Un altro miracolo, possibile anche grazie alla preghiera delle sorelle di clausura».

Operazione Mato Grosso, da Chacas a Lima


La preghiera è origine e motore della profetica intuizione del compianto salesiano padre Ugo De Censi: l’Operazione Mato Grosso. Da più di 50 anni opera in America Latina a fianco dei più poveri. «Tutto ha avuto inizio davanti all’originario retablo, in quello che oggi è il santuario di Nostra Signora dell’Assunzione di Chacas». Mattia, un lombardo naturalizzato in Perú, è il primo a guidarmi nella visita della storica Casa del “don Bosco delle Ande”. «Qui è un porto di mare. Chiunque arriva può chiedere un piatto di minestra, un caffè, ascolto…La parrocchia, padre Ugo l’ha sempre voluta aperta a tutti, h24». È la sorprendente accoglienza sperimentata in prima persona anche da me, il giorno in cui sono arrivata lì, senza preavviso, con il desiderio di conoscere il cuore dell’Operazione Mato Grosso. Ci raggiunge anche Mirko «arrivato in Perú per insegnare disegno ai cooperativisti». È architetto e coordina il lavoro della famiglia degli artigiani. «Fare le cose con arte, come voleva padre Ugo, mi ha sempre affascinato. Lui era pittore. Quello che ha pensato e sognato lo ha fatto con arte». Vedo bellezza. Ognuno di loro mi appare come tessera di un unico mosaico. Visitiamo i laboratori artigianali e le cooperative dove i giovani peruviani lavorano alla realizzazione di sculture, mosaici, vetrate, opere religiose commissionate da tutto il mondo. Una di queste è anche sulla scrivania di Papa Francesco. «Una piccola statua di san Giuseppe con il Bambino, commissionataci dalla Conferenza episcopale, in occasione della visita apostolica in Perú. L’autore è Miguel Morales». Mirko mi lascia con lui. «Provo gioia quando penso che il Papa ha una mia opera. Realizzarla è stato un privilegio. Ho pregato perché Dio guidasse le mie mani in quel lavoro. Ho pensato anche ai grandi artisti come Michelangelo, che hanno lavorato per il Papa». Arrossisce e abbassa i suoi grandi occhi chiari. Poi aggiunge: «Mato Grosso per me è carità di Dio». Da Chacas a Lima, è questo il percorso, per niente scontato, che alcuni ragazzi delle zone rurali più povere decidono di intraprendere. A farsi loro famiglia sono Claudia e Lorenzo insieme ai loro otto figli. Una famiglia missionaria, la stessa chiamata a partecipare alla Via Crucis di quest’anno con Papa Francesco. «Siamo una famiglia normalissima con il semplice desiderio di essere aperti agli altri e alla vita. Ci siamo sempre soltanto lanciati, entusiasmati dietro delle proposte. È una vita piena e intensa quella che facciamo. Abbiamo lasciato tutto per venire qui. La vita comunitaria educa più di tante parole. Non si spiega, si vive».

Casa di Accoglienza per anziani San Vincenzo De Paoli


Prima di salutare il Perú, chiedo di incontrare chi si sta congedando dalla vita. Sono i nonni del Hogar de abuelitas/abuelitos San Vincente de Paul, in Arequipa. Una Casa di accoglienza in risposta alla cultura dello scarto, aperta esclusivamente agli anziani abbandonati. «Pochi arrivano segnalati dalle istituzioni, la maggior parte — racconta la responsabile Lucila Cabana — li ho raccolti dai rifiuti che mangiavano e in mezzo ai quali vivevano, vicino al mercato popolare Avelino». Apro gli occhi su un cupo spaccato della realtà peruviana che non fa notizia. Carmen, Marìa, Antonia, Julia, Rosita, Juan…sono alcuni dei loro nomi. Non è scontato averne uno. A molte e molti di loro si cerca di negare anche un’identità, come a «Maria Maddalena di Gesù Pace. Una delle prime nonnine incontrate tra i rifiuti». Lucila mi racconta la sua straziante storia. «Aveva la sua baracca fatta di sassi, plastica e un tetto di cartone. Parlava spagnolo e quechua. Era stata vittima di abusi da giovane. Cucinava in una lattina di pittura dalla quale un giorno ho visto tirarle fuori la testa di un pollo con le piume. Quella scena mi ha spezzato il cuore e ho detto a me stessa che l’avrei portata con me. Ma per farlo senza essere accusata di rapimento o di sequestro, sono andata alla stazione di polizia per segnalare la sua situazione. “Perché la vuoi prendere con te? È felice”». Lucila non si arrende a quella prima mancata risposta delle istituzioni e va dal giudice di pace per il quale il caso non sussiste. Fa un ultimo tentativo in Procura e, dopo un lungo iter, riesce a portare Maria Maddalena con lei. «Era il 2010. Ho cercato anche di ottenere la sua carta di identità, andando al Registro nacional de identificación, ma per loro ”non esisteva”». È Lucila a farla battezzare con il nome di Maria Maddalena di Gesù Pace, prima della morte, per restituirle l’identità perduta. Identità, dignità, accompagnamento spirituale, insieme a un tetto sulla testa, un pasto caldo, un letto, servizi basici, è quanto la Casa di accoglienza per nonne e nonni offre nella più completa gratuità. Il sogno è quello di ristrutturare tutto e offrire più servizi, ma «non è facile trovare fondi, le persone investono sui giovani». Dimenticano che gli anziani sono un dono per il futuro dell’umanità. Colori primari di quella fitta trama che è la vita, anche in Perú.

di Domitia Caramazza