Hic sunt leones
Il lungo e difficile percorso che ha portato alla nascita della storiografia africana

Una storia non più negata

 Una storia non più negata  QUO-218
23 settembre 2022

«Nell’Africa vera e propria (l’Africa subsahariana) è la sensibilità il punto a cui l’uomo resta fermo: l’assoluta incapacità di evolversi. Egli manifesta fisicamente una grande forza muscolare, che lo rende atto a sostenere il lavoro, e bonarietà d’animo, ma accanto ad essa anche una ferocissima insensibilità. […] L’Africa, per tutto il tempo a cui possiamo storicamente risalire, è rimasta chiusa al resto del mondo. È il Paese dell’oro, che resta concentrato in sé: il Paese infantile, avviluppato nel nero colore della notte al di là del giorno della storia consapevole di sé. […] Gli europei non hanno quindi acquistato che poca conoscenza dell’interno dell’Africa; per contro, qualche volta ne sono usciti fuori popoli che si sono dimostrati così barbari e selvaggi, da escludere ogni possibilità di annodar relazioni con essi. […] In questa parte principale dell’Africa non può aver luogo storia vera e propria. Sono accidentalità, sorprese, che si susseguono. Non vi è un fine, uno stato, a cui si possa mirare: non vi è una soggettività, ma solo una serie di soggetti che si distruggono. […]» Così Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) descriveva l’Africa e gli africani, nel 1830-1831, nelle sue lezioni sulla filosofia della storia. D’altronde per il filosofo tedesco, tutto ciò che è razionale è reale, e viceversa tutto ciò che è reale è razionale. Ecco che allora rinunciando ad individuare nella storia africana delle motivazioni, delle concatenazioni logiche, qualifica il tutto come non razionale.

«Per Hegel colui che non è razionale — osserva l’intellettuale congolese Jean Léonard Touadi — vive al di sotto della soglia dell’umanità; non disumanità, inumanità, ma qualcosa che sta al di sotto dell’umano. E la cultura occidentale, che è intrisa di filosofia hegeliana, è intrisa anche di questa netta cesura, quella che separa la propria “culla”, il luogo della razionalità, dall’Africa, incognita, terra “irrazionale” per eccellenza». A lungo gli europei hanno preferito raccontare il continente africano come un’immensa distesa priva di passato, sine historia, cancellando dalla memoria collettiva, e in parte da quella delle popolazioni autoctone, il ricordo delle grandi civiltà pre-coloniali, con l’eccezione dell’Egitto e delle altre terre affacciate sul Mar Mediterraneo divenute prima puniche, poi romane, bizantine e infine islamiche. Per dichiarare la propria emancipazione dal dominio europeo, gli storici africani e i colleghi europei che sostenevano la loro causa, hanno dovuto dimostrare l’esistenza di una storia continentale totalmente africana, estranea a ogni rapporto con le ex potenze coloniali europee. Si è trattato di una ricerca storiografica che ha avuto il suo incipit in un presupposto irrinunciabile: la vicenda dell’Africa non comincia con le esplorazioni dei navigatori europei come Vasco da Gama alla fine del medioevo e non può essere circoscritta dentro il duplice perimetro della tratta negriera e del colonialismo imperialista.

Naturalmente, questo percorso di ricerca non è stato facile e ha incontrato resistenze. Prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, pochi studiosi della storia africana erano veramente all’altezza del loro compito. Basti pensare che nessuna università offriva un percorso di specializzazione in questa materia. Finalmente, nel 1950 fu creata all’Università di Londra una cattedra di storia africana, seguita poco dopo da quella della Sorbona. Fu proprio in quel periodo che si rivelò un cambio di paradigmi dal punto di vista epistemologico nel modo di concepire l’indagine storiografica: non era più intesa come una semplice cronaca dei fatti e degli avvenimenti, ma una scienza sociale in grado di rendere intelligibile l’evoluzione delle società umane. Al contempo, si avvertì l’esigenza di redigere una storia davvero universale, liberata da ogni sorta di pregiudizio etnocentrico e coloniale.

Vi furono in particolare dei personaggi in quel frangente che svolsero un ruolo pionieristico per quanto concerne l’Africa. Basti pensare al senegalese Cheikh Anta Diop, al suo connazionale Amadou Mahtar M’Bow, al burkinabé Joseph Ki-Zerbo, al camerunese gesuita Engelbert Mveng, al nigeriano Kenneth Onwuka Dike, fondatore dell’Ibadan School of African History. Stando alle memorie di uno degli storici inglesi che più di altri si distinse in questa materia, Philip DeArmond Curtin, «negli anni Settanta, con l’emergere della nuova storiografia, erano quasi cinquecento gli storici che, conseguito il dottorato o una qualificazione equivalente, hanno scelto la storia dell’Africa come attività principale». Sta di fatto che grazie a questi fermenti maturarono due grandi opere: l’Unesco general history of Africa (un accuratissimo lavoro durato 35 anni e completato nel 1999, realizzato con il contributo di diversi storici, anche e soprattutto africani, uno su tutti Ki-Zerbo)e la Cambridge History of Africa (pubblicata tra il 1975 e il 1986 e curata da John Donnelly Fage e Roland Oliver) che segnarono una svolta importante, poiché disfecero il pregiudizio hegeliano, testimoniarono nei fatti l’agognato riconoscimento di una storia. Come osserva Touadi, grazie a questi sforzi ci si rese conto che « l’Africa non è mai stata fuori dall’umanità, e che anzi è la sede — da sempre — di una sorta di primordialità, di arcaicità, che racchiude tutto il senso del principio, dell’inizio della civiltà.

In Storia generale dell’Africa, ad esempio, viene ricostruito quel filo che passa per Hegel e che lega tutta la storiografia occidentale, fino al suo principio: la nascita della civiltà egiziana, da molti oggi riconosciuta come di derivazione nettamente africana».

L’impresa degli ardimentosi studiosi che hanno consentito una ricostruzione di quanto avvenne prima della colonizzazione in Africa non è affatto risultata semplice, in quanto fin dall’inizio delle ricerche si pose il problema delle fonti storiche. Si decise allora di utilizzare una metodologia incrociata, cioè interdisciplinare. Essa include le scienze formali, le scienze naturali e le scienze sociali. Il contributo di alcune discipline è stato ed è tuttora particolarmente rilevante.

La paleontologia umana e preistorica ha reso possibile lo studio e la datazione dell’evoluzione dei primi ominidi; mentre con le scienze geologiche si è potuto approfondire la storia delle migrazioni africane; la paleobotanica, invece, è stata utile nello studio dell’evoluzione dei sistemi agricoli in Africa. E cosa dire dell’egittologia che ha svelato la ricchezza del patrimonio africano classico; o della linguistica comparata che ha reso più evidente, come ha osservato lo storico congolese Théophile Obenga, l’esistenza di una «macro-struttura culturale comune tra l’Egitto dei faraoni e il resto dell’Africa nera». Infine, gli studi sociologici hanno riportato alla luce la complessità dei sistemi africani di organizzazione sociale, culturale e politica. Queste discipline, peraltro, oltre ad offrire una pluralità di strumenti di analisi, vantano una diversità di fonti storiografiche: fonti archeologiche, epigrafiche, archivistiche, orali e linguistiche.

Le implicazioni di queste ricerche hanno evidenziato, ad esempio, come nel periodo anteriore alle colonizzazioni si possano chiaramente ravvisare antiche pratiche consuetudinarie, ossia da insiemi autonomi di regole a carattere obbligatorio per i loro destinatari, sviluppatesi presso ogni gruppo etnico e da questi posti a fondamento del proprio diritto etnico. A questo punto viene spontaneo domandarsi, proprio in riferimento alle fonti, quale validità abbiano quelle orali dal punto di vista storiografico? Anche qui, in Europa si tende a dare più credito a quelle scritte, considerando le orali non affidabili. La nuova storiografia africana non è d’accordo. Emblematico è il giudizio dell’antropologo maliano Amadou HampâtéBâ: «Non c’è nulla in grado di provare a priori che lo scritto sia più fedele, nel rendere conto di una determinata realtà, di quanto non possa esserlo la testimonianza orale tramandata di generazione in generazione. Le cronache delle guerre moderne stanno proprio a dimostrare che ogni partito, ogni Paese vede, come dicono i francesi, “mezzogiorno alla propria porta”: interpreta cioè tutto attraverso il prisma delle proprie passioni, della propria mentalità e dei propri interessi […] Ad essere chiamato in causa, al di là della testimonianza in quanto tale, è dunque il valore stesso dell’uomo che testimonia, il valore della catena di trasmissione alla quale egli si ricollega, la fedeltà alla memoria individuale e collettiva, il pregio che alla verità viene attribuito presso quella tale società».

di Giulio Albanese