Il racconto
Gli incontri del Papa con Sulaiman, fuggito da Kabul, e con i familiari di suor Luisa Dell’Orto

Piazza San Pietro, crocevia tra Afghanistan e Haiti

 Piazza San Pietro, crocevia tra Afghanistan e Haiti  QUO-216
21 settembre 2022

Sulaiman Hewad, 13 anni, era stato dato «per morto». L’estate scorsa, tentando di entrare nell’aeroporto della sua Kabul, con tutta la famiglia, per cercare speranza in Italia, era rimasto schiacciato addosso al cancello. A terra, calpestato. Tra gli spari.

Ma proprio quando per il ragazzo non sembrava esserci scampo, un uomo lo ha “raccolto” da terra e letteralmente “lanciato in aria” tra le braccia del padre Afal che, stamani, in piazza San Pietro, non esita a far ricorso alla parola «miracolo».

A raccontare questa storia oggi è proprio Sulaiman, che in un anno ha imparato benissimo l’italiano. Tanto che nei giorni scorsi ha scritto una appassionata lettera al Papa. Ricevendo in risposta l’invito a incontrarlo personalmente all’udienza generale.

E stamani Sulaiman ha stretto la mano a Francesco. Con gli altri due fratelli — Emran e Erfan, 15 e 5 anni — e i genitori (era presente anche mamma Frishta) e le suore missionarie della Consolata che hanno accolto la famiglia Hewad — e un’altra famiglia scappata da Kabul — nella loro casa a Nepi. I ragazzi sono stati subiti inseriti a scuola e nella vita sociale, tra musica e sport. Talmente inseriti che Sulaiman, temendo che il suo insegnante di italiano — precario — dello scorso anno scolastico perdesse la cattedra, ha anche scritto, con sana sfacciataggine, nella lettera al Papa se c’era modo di dargli una mano... Ma, dice il ragazzo con un sorriso che i suoi genitori pensavano non potesse mai più sfoderare, «il professore era già stato comunque confermato. È lui che, anche fuori dall’orario scolastico, mi ha insegnato l’italiano» confida Sulaiman.

Uno stile di accoglienza non casuale perché, raccontano le religiose, la congregazione aveva già aderito alle iniziative di sostegno dei bambini afghani. «Siamo arrivati in Italia il 24 agosto 2021» racconta papà Afal: «Insieme, come famiglia, stiamo ora cercando di costruire un futuro di speranza, soprattutto per i tre ragazzi».

In quel crocevia di storie che è piazza San Pietro, proprio di fronte alla famiglia Hewad, per certi versi “simbolo” delle vicende del popolo afghano, ecco i familiari e i concittadini di suor Luisa Dell’Orto, la missionaria italiana delle Piccole sorelle del Vangelo, uccisa ad Haiti il 25 giugno scorso. Due giorni prima di compiere 65 anni.

Accompagnati da suor Geneviève Jeanningros — anch’essa della congregazione di Charles de Foucauld — c’erano le due sorelle (Carmen e Maria Adele) e il fratello, padre Giuseppe, di suor Luisa. Con i nipoti. E a rappresentare il popolo di Lomagna (Lecco), città natale della religiosa, c’erano il sindaco Maria Cristina Citterio, il parroco don Andrea Restelli e i responsabili dell’associazione “Il germoglio” fondata nel 1998 proprio per sostenere l’azione di suor Luisa e delle missionarie e dei missionari originari della zona.

Padre Giuseppe, Carmen e Maria Adele raccontano, insieme, la testimonianza della loro sorella. «Morendo per violenza ha portato a termine la sua missione, dando la vita per i più poveri» dice Maria Adele. «E lo ha fatto “a causa di Cristo e del Vangelo”, secondo lo stile testimoniato da Charles de Foucauld» le fa eco padre Giuseppe, ripetendo — visibilmente commosso — le parole di Papa Francesco all’Angelus, il 26 giugno, poche ore dopo l’assassinio: «Suor Luisa ha fatto della sua vita un dono per gli altri fino al martirio». Sì, «martirio» insiste padre Giuseppe.

«Nostra sorella era la colonna portante di “Kay Chal”, la “Casa Carlo”, in un sobborgo poverissimo di Port-au-Prince, capitale di Haiti, dove si trovava dal 2002. Lì ha dedicato tutta se stessa a liberare i cosiddetti “baby schiavi”». Proprio in questa sua opera di riscatto dei bambini, fa presente ancora padre Giuseppe, andrebbe trovata la ragione della sua uccisione.

Prima di Haiti — raccontano ancora le due sorelle e il fratello — suor Luisa era stata in missione, dal 1987 al 1990, in Camerun, a Salapombe, in una foresta tra i pigmei baka. Poi, dal 1997 al 2001, era stata in Madagascar. L’incontro con Papa Francesco (al quale hanno portato doni significativi), dice questa “comunità” legata a suor Luisa, è un segno concreto che rilancia tutti, coraggiosamente, nella missione tra coloro che sono più fragili, anche in situazioni che mettono a rischio la propria vita.

E di «educazione alla non violenza» ha parlato al Papa, durante l’udienza generale, anche Cosetta Tesi che gli ha presentato un articolato progetto («Educare all’amore») per le scuole superiori. Con lei anche Roberto Catania, vice direttore tecnico del sistema di autodifesa denominato “krav maga”, particolarmente impegnato «contro la violenza di genere».

L’educazione è da 40 anni al centro anche dell’azione della Fondazione Giovanni Paolo ii , oggi in prima linea, in particolare in Polonia, nell’accoglienza degli ucraini fuggiti dalla guerra.

L’attenzione «ai più poveri tra i poveri» è l’essenza del servizio dei Missionari della carità contemplativi, ramo maschile della congregazione co-fondata da santa Teresa di Calcutta e padre Sebastian Vazhakala, che ha presentato al Pontefice i 22 religiosi partecipanti al capitolo generale. Francesco ha accolto anche le 46 religiose capitolari della congregazione delle Figlie di Nostra Signora del Sacro Cuore.

Particolarmente numerosi gli sposi novelli — che il Pontefice ha incoraggiato, benedicendo anche le coppie che celebrano gli anniversari di matrimonio — e le associazioni che riuniscono le persone ammalate e con disabilità. In particolare, proprio oggi si celebra la Giornata mondiale dell’Alzheimer. A parlarne al Papa sono venuti i volontari dell’associazione romana “Alzheimer uniti”. Si calcola che nel mondo siano circa 55 milioni le persone colpite da demenze. Nel 60 per cento dei casi si tratta proprio di Alzheimer. In Italia — fanno presente — sono oltre un milione, di cui 600 mila proprio con questa malattia.

La Giornata mondiale, dunque, «è un’occasione opportuna» per rispondere a questioni urgenti e gravi «con soluzioni assistenziali, servizi di sollievo che non comportino l’isolamento dei malati». Insomma, nessun ghetto, neppure se è “dorato”.

Le associazioni che danno voce alle persone con Alzheimer e ai loro familiari ricordano anche che «negli ultimi anni si sono ridotti quei presidi pubblici, già insufficienti, come i centri diurni che avevano consentito di tenere a casa i propri congiunti, nonostante la scarsa assistenza domiciliare». Ma «la priorità assoluta deve essere l’aiuto a domicilio, sostenendo anche i familiari con servizi adeguati che evitino il trauma della separazione».

Particolarmente significativo inoltre l’incontro del Papa con i rappresentanti dell’Associazione nazionale dializzati, dialisi e trapianto. Nata a Milano 50 anni fa, l’associazione ha trovato nell’incoraggiamento di Francesco la strada per «rafforzare la consapevolezza della malattia, accrescendo la resilienza, senza perdere la speranza». 

di Giampaolo Mattei