In merito alle ultime tre morti “eccellenti”

Il nostro compito: vivere
e morire da esseri umani

TOPSHOT - An artist draws a portrait of Britain's Queen Elizabeth II on tiles with chalk at ...
12 settembre 2022

Negli ultimi giorni sono venute a mancare due persone che hanno segnato la storia dell’ultimo secolo: Michail Gorbaciov ed Elisabetta ii . I media hanno dato ampio risalto a queste notizie ripercorrendo l’arcata temporale delle due biografie. Si tratta di persone che sono già entrate nei libri di storia. In questi manuali, che tutti abbiamo incrociato nella nostra esperienza scolastica, si studiano infatti i “grandi” della storia. Siamo fatti così noi umani, abbiamo bisogno di fare classifiche, di dare ordini di grandezza, di dividere il mondo in grandi e piccoli, potenti e deboli, vincenti e sconfitti perché, per usare un’espressione di Papa Francesco, siamo tutti chiusi dentro la “cultura dell’aggettivo” anziché aprirci alla “teologia del sostantivo”. E quindi abbiamo Cesare e Napoleone, Garibaldi e Mazzini, e poi Alessandro e Carlo detti appunto “Magno”.

Sappiamo bene quanto tutto questo, ovviamente, sia parziale, riduttivo, alla fine menzognero, però andiamo avanti così, classificando e celebrando: è un nostro bisogno istintivo, che forse nasce dall’insicurezza, dalla consapevolezza della nostra fragilità. Sappiamo che ha quindi ragione il Papa quando ci ricorda — come ha fatto anche il 27 marzo 2020, durante la “storica” Statio Orbis in piazza San Pietro sotto la pioggia — che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni — solitamente dimenticate — che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia», rievocando così l’intuizione di Edith Stein per cui «sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia».

È dunque la nostra disperante fragilità che ci porta a ricordare pubblicamente solo i cosiddetti “grandi” e allora, in questi giorni, ricordiamo Gorbaciov ed Elisabetta. Il primo ha trovato molto meno spazio sui media rispetto alla seconda, pur essendo stato uno di quei pochi uomini che davvero ha cambiato il corso della storia. Costantino, Lutero.. non sono tanti quelli di cui si può dire così, Gorbaciov è uno di questi. Diversamente la regina d’Inghilterra che piuttosto ha accompagnato la storia, cosa non meno facile, per un intero secolo, un periodo che forse è stato il più sconvolgente dal punto di vista dei cambiamenti politici, sociali, economici, “esistenziali”. Incredibili cambiamenti ad un’incredibile velocità. Elisabetta è stata testimone di un vertiginoso stravolgimento sociale per cui il mondo della sua infanzia ha ben poco da spartire con quello della sua vecchiaia. La progressiva accelerazione delle trasformazioni tra quel 1926 in cui nasceva e questo 2022 è qualcosa che colpisce e inquieta le coscienze di tutti. Time is out of joint, diceva Eliot cogliendo una sensazione comune: il tempo è impazzito, ormai è fuori controllo, fuori “dai binari”.

Verso dove si dirige la storia? A un livello ancora più radicale, fondamentale, la morte della regina inglese ci interpella anche perché la sua longevità ci pone di fronte al problema umano per eccellenza: il senso del tempo e della sua finitudine. Nascendo abbiamo contratto una malattia mortale che chiamiamo vita, this version of death called life, come canta Dylan. Certo la “durata” di Elisabetta colpisce, e ci ricorda al tempo stesso che vivere non è durare, che il tempo non può essere solo krònos ma deve essere anche kairòs «poiché senza significato non c’è tempo» (sempre Eliot).

Certo ci viene in soccorso la parola dei poeti, come questo verso potente della Szymborska: «Non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale / La morte è sempre in ritardo di quell’attimo». E allora proviamo a cercare quell’attimo e a intuire il senso di queste due morti, il 30 agosto Gorbaciov e l’8 settembre Elisabetta ii e trovare così un significato alla nostra.

Per farlo forse dobbiamo ricorrere ad una terza persona, trovata morta il 23 agosto, un uomo senza un nome e senza un volto (nel senso che non è mai stato fotografato o ritratto): l’indio del buraco. Ne parla in modo toccante Raffaele Luise nel recente libro Amazzonia. Viaggio al tempo della fine: «Nello Stato di Rondônia, si muove un indio isolato, solo al mondo, ultimo rappresentante del suo popolo, i Corumbaria, sterminato dalla dittatura militare [...] Minacciato da tutti, fugge da tutto […] vive scavando buche nella terra, e per questo viene chiamato “l’indio del buraco”. In queste buche, ogni notte diverse, si cala per dormire, dopo aver fissato l’amaca e coperto la cavità con un tetto di legna e foglie». Adagiato su quell’amaca è stato ritrovato il 23 agosto, morto per cause naturali, ricoperto di piume. Nessun segno di violenza fisica, nessuna traccia di incursione nel terreno. Da solo, come era vissuto per tanti lunghi anni. Celebrare la vita di questo indio sarebbe commettere lo stesso errore di quei libri di storia nei quali egli forse non entrerà mai. Non deve essere stata una vita facile, costui è l’ultimo superstite di un genocidio. Di fronte alla violenza del mondo ha scelto di fuggire, di nascondersi. Se Elisabetta è rimasta dentro la storia che vorticosamente cambiava davanti ai suoi occhi, l’indio del buraco si è già “sepolto in vita”, è uscito dalla storia per vivere nella fissità della natura, morendo, come si dovrebbe morire, per cause naturali. Celebrare dunque non la sua vita ma la sua morte, lo stile con cui l’ha affrontata, questo sì, questo forse è giusto e opportuno. Da come è stato ritrovato si intuisce che egli ha accolto la sua morte, non l’ha subita. Si è “apparecchiato”, come esortava sant’Alfonso Maria de’ Liguori, mettendosi a guardare il cielo, il gesto più umano di tutti, e si è abbandonato con dolcezza al mistero della fine. Forse è morto libero dalla paura; verrebbe da dire: è morto come un re. E può darsi che abbia detto a voce alta come Cotenna di Bisonte (indimenticabile capo cheyenne del film Il piccolo grande uomo): «Oggi è un bel giorno per morire». Chissà se infine avrà trovato la pace, ma a chi non piacerebbe ripetere i suoi gesti, pronunciare le sue parole? 

di Andrea Monda