La buona Notizia Il Vangelo della xxiv domenica del tempo ordinario (Lc 15, 1-32)

Gesù, esegeta del Padre tenerissimo

 Gesù, esegeta del Padre tenerissimo  QUO-203
06 settembre 2022

Stanco della mentalità farisaica volta a squalificare i peccatori, Gesù, da straordinario esegeta del Padre, narra un’ampia parabola in tre quadri (Luca 15,1-32) per mettere in scena il paradosso dell’amore eccedente del Padre e provocare gli uomini religiosi del suo tempo alla conversione a un Dio che non ha nulla a che vedere con le misure umane così risicate, con le nostre definizioni dogmatiche così asfittiche, con l’attitudine di chi dichiara di conoscerlo a parole ma poi lo rinnega coi fatti (cf Tito 1,16).

I primi due quadri della parabola si somigliano moltissimo: in entrambi c’è qualcosa che si è smarrita che viene poi cercata, ritrovata e festeggiata. Nel primo il protagonista è un uomo, nel secondo una donna; nel primo la ricerca accade fuori, nel secondo dentro; nel primo la perdita ammonta a 1/100, nel secondo a 1/10. Il pastore tiene tanto alle sue pecore e non vuole che nessuna vada perduta (cf Luca 19,10; Giovanni 6,39), perciò la cerca «finché non la trova» (Luca 15,4). La pecora smarrita, così amata dal suo pastore, simboleggia la vicenda di chi, perso, si è lasciato trovare e per il quale Dio fa festa. È Dio il pastore che, diversamente dagli uomini, ama follemente il suo gregge (cf Salmo 23; Isaia 40,11; Geremia 23,1-4; Ezechiele 34). Dal pascolo poi si passa alla casa, dove una donna ha smarrito una moneta d’argento, ma non si dà per vinta e si mette a cercare la moneta «accuratamente finché non la trova» (Luca 15,8) e la sua gioia nel ritrovarla è così grande da parteciparla anche alle sue amiche e alle sue vicine. Questa gioia richiama quella degli «angeli di Dio» (espressione pudìca per far riferimento a Dio) per un solo peccatore che si converte. La gioia eccedente del pastore e della donna diventano così categorie propedeutiche per parlare della gioia che Dio nutre per i suoi figli.

A differenza dei primi due quadri, il terzo non contiene il tema della ricerca ma quello dell’attesa, non parla di Dio, né di «cielo», né di «angeli». Nei precedenti quadri la perdita passava da 1/100 a 1/10 dei propri beni; ora si giunge a una perdita totale. Nei primi due quadri a smarrirsi sono delle «proprietà», nel terzo sono figli, creature dotate di intelligenza, spirito di iniziativa e libertà. L’ultimo quadro, dunque, tocca i rapporti familiari e il riflettore si accende prima sulla relazione figlio minore/padre (Luca 15,11-24), poi su quella figlio maggiore/padre (Luca 15,25-32).

Il figlio minore si presenta come “l’uomo dei diritti” che desidera la sua quota di patrimonio prima del tempo. Abbagliato da una libertà estrema e senza limiti, s’immerge nella cultura del provvisorio che consuma tutto e in fretta e recide l’uomo dalla rete delle sue relazioni destinandolo alla morte. Ricordando il calore della sua casa e degli affetti, questo figlio decide di tornare e propone al padre di farlo lavorare presso di lui per guadagnarsi il pane. Dalla logica dei diritti il giovane passa alla logica dello scambio.

Con occhio d’aquila il padre scruta il sentiero, desideroso d’intravedere per primo la sagoma del figlio in lontananza: pur essendo leso a motivo dello sgarro subito, ha deciso di far grazia al giovane rendendolo pubblico presso tutto il villaggio. Con cinque verbi Luca dipinge l’affetto di questo padre dietro al quale si cela quello che Tobi ed Anna avevano manifestato a Tobia, loro figlio, in occasione del suo ritorno a casa (cf Tobia 11,5-6.9.13): un cuore che vede, s’intenerisce, corre, abbraccia e bacia. La liturgia di tenerezza celebrata sulla soglia di casa sancisce la risurrezione del figlio ribelle e la fedeltà inossidabile dell’amore paterno; la liturgia di festa celebrata in casa con il banchetto, la musica e le danze, segna poi il suo ritorno a una vita di relazioni e il recupero della sua dignità smarrita.

Il suono della festa raggiunge il primogenito di ritorno dal lavoro mettendolo subito di cattivo umore: egli decide di non entrare in casa per ferire quel padre che, accogliendo il fratello dis-graziato, lo ha umiliato. Per tutta la sua vita ha vissuto in modo servile crogiolandosi nella sua perfetta e lodevole osservanza di tutti i dettami paterni e ora si sente buggerato, sfruttato e deluso. Anche di fronte alla miseria di questo figlio che incarna il tipo dell’“uomo dei doveri” e alla sua visione distorta delle cose e dei rapporti, il padre non perde la pazienza e gli spiega amorevolmente che un figlio non è amato in forza di ciò che fa, credendo di guadagnarsi in qualche modo la stima e l’amore del padre, ma in forza di ciò che è, cioè l’erede amato del padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Luca 15,31-32).

Alla logica dei diritti, dello scambio, dei doveri, il padre contrappone la “logica della gratuità e della tenerezza misericordiosa”, che Gesù vuole indicare non solo ai farisei del suo tempo ma anche a noi che oggi siamo i destinatari di questa Parola. L’esegeta del Padre ci consegna lo stile della tenerezza, fatto di dono, perdono, comunione nell’amore, che trasforma la vita in festa e procura una gioia piena e contagiosa. (rosalba manes)

di Rosalba Manes