Sulla porta di casa Dawood Yousefi e la sua storia

Un cimitero blu come il mare

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03 settembre 2022

«Il mare non l’avevo mai visto prima. Ero su un gommone insieme con i quattro amici coi quali avevo condiviso quasi undici mesi di viaggio, attraversando deserti e montagne, schivando i colpi di fucile delle guardie di frontiera, evitando le mine antiuomo, passando giorni senza cibo e senza acqua. Quando è spuntato il sole ho visto quell’immensità azzurra: un altro muro da superare, ma anche una porta aperta davanti alla nostra speranza di poter finalmente trovare un posto sicuro dove iniziare una nuova vita». Aveva meno di 17 anni Dawood Yousefi quando ha lasciato la sua famiglia, gli studi di biologia, il lavoro da falegname, il suo paese, l’Afghanistan. Ora di anni ne ha 37 e vive a Roma, dove lavora come maestro di sostegno in una scuola elementare e aiuta la comunità di Sant’Egidio per garantire ai migranti corridoi umanitari.

Ci incontriamo nella scuola di lingua italiana per stranieri, in piazza Santa Maria in Trastevere, dove Dawood collabora nella segreteria. L’afa cittadina si fa sentire e fa rimpiangere la carezza fresca della brezza su una bella spiaggia. Ma non è di questo mare che vogliamo parlare. Dawood, com’è il mare visto con gli occhi di chi, come te, ha dovuto lasciare la propria casa e i propri cari? «Per chi cerca di arrivare in Europa dall’Asia o dall’Africa settentrionale, dopo tante giornate passate a camminare nel deserto o lungo la rotta balcanica con poco o niente da mangiare e da bere, vedere il mare significa rinascere. Quando lo vedi sai che dall’altra parte c’è il tuo futuro. Quello per cui hai messo in gioco tutto te stesso. Pensi che quello sarà l’ultimo sforzo. Ma non è facile affrontarlo. Devi lottare con le onde, sopportare il freddo. Poi, se finisci in acqua, devi saper nuotare. E anche se lo sai fare di sicuro non lo hai mai fatto prima in mare aperto. È così che il Mediterraneo, che da sempre ha rappresentato un’opportunità di incontro e di sviluppo tra popoli e civiltà, è diventato in questi anni un immenso cimitero».

In quel cimitero blu è rimasto sepolto per alcuni giorni anche il corpo di uno dei quattro amici che hanno condiviso con te il lungo viaggio verso l’Europa. «Il trafficante che ci ha venduto il gommone diceva che l’Europa era vicina. In effetti bastano due ore per attraversare il braccio di mare tra Smirne, in Turchia, e l’isola di Lero, in Grecia. Ma noi ci abbiamo messo cinquantacinque ore. Siamo partiti verso mezzanotte. Sembrava di stare su una tavola nera. Poi sono cominciate le onde. Sempre più alte, sempre più violente. Il vento, il gommone che saltava e girava su se stesso. Ci tenevamo stretti alle corde. Ma un mio amico, un ragazzo che conoscevo da quando ero bambino, ha perso la presa. È finito in acqua. Era buio. Nessuno di noi sapeva nuotare. Lo abbiamo sentito gridare aiuto. Poi, più niente…».

Ti chiedo scusa per aver richiamato dalla tua memoria quel dolore. Ma tu mi rassicuri: «Io sono stato sempre forte. Non piango da quando avevo nove, dieci anni. Non ho pianto neanche quando ho visto il corpo del mio amico recuperato dalla guardia costiera greca. Non mi veniva…». Ora però mi spiego quel velo di melanconia che vedo nei tuoi occhi, nonostante il sorriso accogliente e rassicurante che mi regali durante tutto il nostro incontro. «Per un migrante — spiega Dawood —, il mare custodisce tante storie belle ma anche tante storie brutte. Quando sei lì, in mezzo alle onde, sei solo tu e il tuo Dio che ti protegge. Pensi ai tuoi genitori, alle loro preghiere e al tuo futuro… E ti dici: ce la farò, riuscirò a restare vivo».

Tu ce l’hai fatta, restando anche aggrappato per ore sotto la pancia di un camion per superare i controlli nel porto di Bari. Poi il treno per Roma e l’arrivo alla stazione Ostiense, dove all’epoca si ritrovavano i ragazzi fuggiti dall’Afghanistan prima di decidere in quale paese dell’Europa provare ad andare. È qui, per strada, che hai incontrato i volontari della comunità di Sant’Egidio che ti hanno aiutato a chiedere il diritto d’asilo, a completare gli studi, a costruire quel futuro di uomo che sognavi.

«In Afghanistan studiavo e mi piaceva scattare fotografie. Ma il mio lavoro era quello di falegname. In questi ultimi anni in Italia ho capito però che la mia strada è nel sociale. Desidero in qualche modo restituire quello che ho ricevuto. E ora lo faccio, lavorando in una scuola elementare con i bambini disabili e aiutando la comunità di Sant’Egidio nell’impegno a favore dei rifugiati e dei migranti. Ogni estate, con gli altri volontari, vado nel campo profughi di Moira nell’isola di Lesbo. Ricordo la prima volta. È stato nel 2018. La prima cosa che ho fatto è stato andare davanti al mare e mettermi a pregare. È stato forte guardare quel pezzetto di mare tra Turchia ed Europa e pensare che lì ci sono sepolte tante persone come me che però non hanno avuto la possibilità di realizzare i loro sogni».

Tra due giorni partirai per una nuova missione. Stavolta la meta è l’Iran dove la comunità spera di aprire un corridoio umanitario per portare in salvo alcuni dei tanti afghani che si sono rifugiati lì negli ultimi mesi. Ma c’è anche un motivo personale: riabbracciare la tua famiglia, i tuoi genitori, i tuoi fratelli, fuggiti anche loro pochi giorni dopo il ritorno al potere dei talebani. Non li abbracci da vent’anni, da quando sei partito.

Dawood, ci rivediamo al tuo ritorno. Sono sicuro che la malinconia sui tuoi occhi avrà lasciato un po’ di spazio alla gioia.

(intervista a cura di
Piero Di Domenicantonio)