L’esperienza di una suora in una struttura per migranti a Ravenna

Accogliere lo straniero

 Accogliere lo straniero  QUO-191
23 agosto 2022

Coordinare la gestione di un dormitorio parrocchiale comporta toccare con mano tante storie. Le mie precedenti esperienze di volontariato con le persone senza fissa dimora probabilmente si erano focalizzate più sul trovare “strategie” per avvicinarli e su quel poco che potevo dare loro: qualcosa da mangiare, da bere e qualche stentata parola di conforto e di incoraggiamento, insieme a informazioni utili o presunte tali. La gestione di una struttura di bassa soglia, invece, pone ben altre sfide. Si tratta di mettere da parte anche le proprie migliori intenzioni per fare spazio alle vite di coloro che ospitiamo e rimanere annunciatori della speranza cristiana pur nell’impotenza a cui tante volte siamo esposti.

Il nostro dormitorio «Buon Samaritano», che si trova nella parrocchia di San Rocco a Ravenna, affronta la sfida quotidiana di relazionarsi con la rassegnazione e la perdita di senso. Colpisce molto la richiesta continua di accoglienza da parte di giovani immigrati, che si trovano nel limbo dell’attesa dei documenti e dell’inserimento nei Centri di accoglienza straordinari sempre più affollati. Ravenna non è nella rotta dei flussi di migrazione ma si è sparsa la voce che la Questura faccia presto con i documenti (informazione inesatta) e molti seguono questa via per arrivare prima all’obiettivo di essere regolari in Italia, ma si trovano ad affrontare lunghe attese (dai due agli otto mesi in media) senza lavoro, alloggio e soldi, in altre parole per strada. Altrettanto numerosa è la richiesta da parte di persone che soffrono di disturbi mentali e dipendenze che non trovano un’adeguata rete di tutela familiare né sanitaria, e finiscono così a entrare e uscire da dormitori come il nostro. La struttura, che nell’era covid ospita fino a quindici uomini e tre donne, si trova così ad affrontare sfide molto più grandi di sé.

Spesso mi sono trovata a interrogarmi su cosa significhi vivere l’annuncio del Vangelo all’interno di questo dormitorio, in cui occorre risolutezza, attenzione al particolare e visione di insieme, cura delle relazioni con le istituzioni pubbliche, conoscenza del territorio e delle sue risorse, consapevolezza dei propri limiti, personali e dell’accoglienza stessa, senza farsi prendere da “manie da salvatori” né dallo scoraggiamento. Ci troviamo infatti a dover fare anche scelte difficili, come quelle di allontanare alcune persone davanti ad atti di aggressione o gravi violazioni del regolamento interno o a dire dei “no” all’accoglienza, riconoscendo di non essere all’altezza di affrontare i disagi che i nostri ospiti vivono. E in effetti non compete a noi — piccola struttura di accoglienza fondata ormai più di vent’anni fa da don Ugo Salvatori, che è stato presbitero dell’arcidiocesi di Ravenna-Cervia, e portata avanti da volontari — farci carico da soli del dramma di queste persone.

Le amministrazioni con cui proviamo a fare rete spesso finiscono con l’appoggiarsi a realtà come la nostra per rispondere in via emergenziale a situazioni che dovrebbero essere riconosciute come diritti. È noto che manchino le risorse economiche e il personale per seguire i casi; mancano le strutture adeguate per accogliere persone con necessità sanitarie e abitative. Sono troppo lunghi e incerti i tempi della burocrazia per regolarizzare la presenza degli immigrati in Italia. Proprio per tutte queste ragioni non basta dare un letto e una doccia, sebbene questo per le persone che accogliamo sia già quanto gli è necessario per togliersi dalla strada e dalla disperazione. Occorre essere voce di coloro che per la nostra società occidentale sono senza voce, richiamando l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica affinché il ricordo degli ultimi non sia solo uno slogan da campagna elettorale ma un’esigenza di civiltà, prima ancora che di carità. Come cristiani non possiamo accontentarci di una politica che usa all’occorrenza i simboli religiosi, ma dobbiamo essere esigenti e chiedere che i programmi e le conseguenti scelte amministrative rispondano ai bisogni reali delle persone, e soprattutto dei più deboli. Carità e speranza cristiana, dal punto di osservazione che mi offre questo piccolo dormitorio parrocchiale, non possono dirsi soddisfatte dal poco che possiamo fare; occorre una coscienza attiva e critica che senta l’imperativo di promuovere la giustizia sociale e si impegni con scelte concrete, a chiedere che gli ultimi non siano strumentalizzati per poi essere ancora dimenticati. Come Chiesa dobbiamo pretendere che i nostri valori fondanti non siano richiamati per creare divisioni tra coloro che possono o non possono accedere ai sacramenti, ma siano coerentemente realizzati in scelte politiche e sociali che promuovano una società in cui ogni donna e uomo siano riconosciuti nella dignità di persona.

Come ha sottolineato il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, nel suo ringraziamento al presidente del Consiglio uscente Mario Draghi, «dobbiamo pensare alla sofferenza delle persone e garantire risposte serie, non ideologiche o ingannevoli, che indichino anche, se necessario, sacrifici, ma diano sicurezza e motivi di speranza. [...] Il fondamentale confronto politico non deve mancare di rispetto e deve essere improntato alla conoscenza dei problemi, a visioni comuni senza furbizie, con passione per la cosa pubblica e senza agonismi approssimativi che tendono solo a piccoli posizionamenti personalistici e non a risolvere le questioni».

di Maria Giovanna Titone


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