La messa nel Commonwealth Stadium di Edmonton

Custodi delle radici
e artigiani
di una storia nuova

 Custodi delle radici  e artigiani  di una storia nuova  QUO-170
27 luglio 2022

Mai opprimere la coscienza dell’altro, mai incatenare la libertà
di chi ci sta di fronte, mai mancare di amore e di rispetto per le persone
che ci hanno preceduto 


La terza giornata del viaggio in Canada si è aperta con la messa presieduta dal Papa al Commonwealth Stadium di Edmonton. Nella mattina di martedì 26 luglio, festa liturgica dei Santi Gioacchino e Anna, oltre cinquantamila persone hanno gremito il grande impianto sportivo della capitale dell’Alberta dove si è svolta la celebrazione, durante la quale il Pontefice ha pronunciato in spagnolo l’omelia che pubblichiamo in una traduzione italiana.

Oggi è la festa dei nonni di Gesù; il Signore ha voluto che ci incontrassimo così numerosi proprio in questa occasione tanto cara a voi, come a me. Nella casa di Gioacchino e Anna il piccolo Gesù ha conosciuto i suoi anziani e ha sperimentato la vicinanza, la tenerezza e la saggezza dei nonni. Pensiamo anche noi ai nostri nonni e riflettiamo su due aspetti importanti.

Il primo: siamo figli di una storia da custodire. Non siamo individui isolati, non siamo isole, nessuno viene al mondo slegato dagli altri. Le nostre radici, l’amore che ci ha atteso e che abbiamo ricevuto venendo al mondo, gli ambienti familiari in cui siamo cresciuti, fanno parte di una storia unica, che ci ha preceduti e generati. Non l’abbiamo scelta noi, ma ricevuta in dono; ed è un dono che siamo chiamati a custodire. Perché, come ci ha ricordato il Libro del Siracide, siamo «i posteri» di chi ci ha preceduto, siamo la loro «preziosa eredità» (Sir 44, 11). Un’eredità che, al di là delle prodezze o dell’autorità di alcuni, dell’intelligenza o della creatività di altri nel canto o nella poesia, ha il suo centro nella giustizia, nell’essere fedeli a Dio e alla sua volontà. E questo ci hanno trasmesso. Per accogliere veramente chi siamo e quanto siamo preziosi, abbiamo bisogno di assumere in noi coloro da cui discendiamo, coloro che non hanno pensato solo a sé stessi, ma ci hanno trasmesso il tesoro della vita. Siamo qui grazie ai genitori, ma anche grazie ai nonni che ci hanno fatto sperimentare di essere benvenuti nel mondo. Sono stati spesso loro ad amarci senza riserve e senza attendere qualcosa da noi: loro ci hanno presi per mano quando avevamo paura, rassicurati nel buio della notte, incoraggiati quando alla luce del sole dovevamo affrontare le scelte della vita. Grazie ai nonni abbiamo ricevuto una carezza da parte della storia che ci ha preceduto: abbiamo imparato che il bene, la tenerezza e la saggezza sono radici salde dell’umanità. Nella casa dei nonni in tanti abbiamo respirato il profumo del Vangelo, la forza di una fede che ha il sapore di casa. Grazie a loro abbiamo scoperto una fede familiare, una fede domestica; sì, è così, perché la fede si comunica essenzialmente così, si comunica “in dialetto”, si comunica attraverso l’affetto e l’incoraggiamento, la cura e la vicinanza.

Questa è la nostra storia da custodire, la storia di cui siamo eredi: siamo figli perché siamo nipoti. I nonni hanno impresso in noi il timbro originale del loro modo di essere, dandoci dignità, fiducia in noi stessi e negli altri. Essi ci hanno trasmesso qualcosa che dentro di noi non potrà mai cancellarsi e, allo stesso tempo, ci hanno permesso di essere persone uniche, originali e libere. Così, proprio dai nonni abbiamo appreso che l’amore non è mai una costrizione, non priva mai l’altro della sua libertà interiore. Gioacchino e Anna hanno amato così Maria e hanno amato Gesù; e Maria ha amato così Gesù, con un amore che non lo ha mai soffocato né trattenuto, ma lo ha accompagnato ad abbracciare la missione per cui era venuto nel mondo. Cerchiamo di imparare questo come singoli e come Chiesa: mai opprimere la coscienza dell’altro, mai incatenare la libertà di chi ci sta di fronte e, soprattutto, mai mancare di amore e di rispetto per le persone che ci hanno preceduto e ci sono affidate, tesori preziosi che custodiscono una storia più grande di loro.

Custodire la storia che ci ha generato — ci dice ancora il Libro del Siracide — significa non offuscare “la gloria” degli antenati: non smarrirne la memoria, non dimenticarci della storia che ha partorito la nostra vita, ricordarci sempre di quelle mani che ci hanno accarezzato e tenuto in braccio, perché è a questa fonte che troviamo consolazione nei momenti di sconforto, luce nel discernimento, coraggio per affrontare le sfide della vita. Ma custodire la storia che ci ha generato significa anche tornare sempre a quella scuola, dove abbiamo appreso e vissuto l’amore. Significa, di fronte alle scelte da prendere oggi, domandarci che cosa farebbero al nostro posto gli anziani più saggi che abbiamo conosciuto, che cosa ci consigliano o ci consiglierebbero i nostri nonni e bisnonni.

Cari fratelli e sorelle, chiediamoci allora: siamo figli e nipoti che sanno custodire la ricchezza ricevuta? Facciamo memoria dei buoni insegnamenti ereditati? Parliamo con i nostri anziani, dedichiamo tempo per ascoltarli? E ancora, nelle nostre case, sempre più equipaggiate, moderne e funzionali, sappiamo ricavare uno spazio degno per conservare i loro ricordi, un luogo apposito, un piccolo sacrario familiare che, attraverso immagini e oggetti cari, ci permetta anche di elevare il pensiero e la preghiera a chi ci ha preceduto? Abbiamo conservato la Bibbia e il rosario dei nostri antenati? Pregare per loro e in unione con loro, dedicare tempo a fare memoria, custodire l’eredità: nella nebbia della dimenticanza che assale i nostri tempi vorticosi, fratelli e sorelle, è fondamentale prendersi cura delle radici. È così che cresce l’albero, è così che si costruisce il futuro.

Giungiamo così a riflettere su un secondo aspetto: oltre che figli di una storia da custodire siamo artigiani di una storia da costruire. Ciascuno può riconoscere di essere quel che è, con le sue luci e le sue ombre, a seconda dell’amore che ha ricevuto o che gli è mancato. Il mistero della vita umana è questo: siamo tutti figli di qualcuno, generati e plasmati da qualcuno, ma diventando adulti siamo anche chiamati a essere generativi, padri, madri e nonni di qualcun altro. E dunque, guardando alla persona che siamo oggi, che cosa vogliamo fare di noi stessi? I nonni da cui proveniamo, gli anziani che hanno sognato, sperato e si sono sacrificati per noi, ci rivolgono un interrogativo fondamentale: che società vogliamo costruire? Abbiamo ricevuto tanto dalle mani di chi ci ha preceduto: che cosa vogliamo lasciare in eredità ai nostri posteri? Una fede viva o “all’acqua di rose”, una società fondata sul profitto dei singoli o sulla fraternità, un mondo in pace o in guerra, un creato devastato o una casa ancora accogliente?

E non dimentichiamo che questo movimento che dà vita va dalle radici ai rami, alle foglie, ai fiori, ai frutti dell’albero. La vera tradizione si esprime in questa dimensione verticale: dal basso verso l’alto. Stiamo attenti a non cadere nella caricatura della tradizione, che non si muove in una linea verticale — dalle radici ai frutti — ma in una linea orizzontale — avanti/indietro — che ci porta alla cultura dell’ “indietrismo” come rifugio egoistico; e che non fa altro che incasellare il presente e conservarlo nella logica del “si è sempre fatto così”.

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù dice ai discepoli che sono beati perché possono vedere e ascoltare ciò che tanti profeti e giusti hanno soltanto potuto desiderare (cfr. Mt 13, 16-17). Molti, infatti avevano creduto nella promessa di Dio sulla venuta del Messia, avevano preparato la strada per Lui, ne avevano annunciato l’arrivo. Ora che il Messia è giunto, però, quanti possono vederlo e ascoltarlo sono chiamati ad accoglierlo e annunciarlo.

Fratelli e sorelle, questo vale anche per noi. Coloro che ci hanno preceduto ci hanno trasmesso una passione, una forza e un anelito, un fuoco che tocca a noi ravvivare; non si tratta di custodire delle ceneri, ma di ravvivare il fuoco che essi hanno acceso. I nostri nonni e i nostri anziani hanno desiderato vedere un mondo più giusto, più fraterno, più solidale e hanno lottato per darci un futuro. Ora, tocca a noi non deluderli. Tocca a noi farci carico di questa tradizione che abbiamo ricevuto, perché la tradizione è la fede viva dei nostri morti. Per favore, non trasformiamola in tradizionalismo, che è la fede morta dei vivi, come ha detto un pensatore. Sostenuti da loro, dai nostri padri, che sono le nostre radici, tocca a noi portare frutto. Siamo noi i rami che devono fiorire e immettere semi nuovi nella storia. E allora, facciamoci una domanda concreta: di fronte alla storia di salvezza a cui appartengo e di fronte a chi mi ha preceduto e amato, io che cosa faccio? Ho un ruolo unico e insostituibile nella storia: che traccia sto lasciando dietro al mio cammino, che cosa sto facendo, cosa sto lasciando a chi mi segue, che cosa sto dando di me? Tante volte si misura la vita in base ai soldi che si guadagnano, alla carriera che si realizza, al successo e alla considerazione che si ricevono dagli altri. Ma questi non sono criteri generativi. La questione è: sto generando? Sto generando vita? Sto immettendo nella storia un amore nuovo e rinnovato? Sto annunciando il Vangelo dove mi trovo a vivere, sto servendo qualcuno gratuitamente, come chi mi ha preceduto ha fatto con me? Che cosa faccio per la mia Chiesa, per la mia città e la mia società? Fratelli e sorelle, è facile criticare, ma il Signore non ci vuole solo critici del sistema, non ci vuole chiusi, non vuole che siamo e “indietristi”, di quelli che si tirano indietro, come dice l’autore della Lettera agli Ebrei (cfr. 10, 39), ma vuole che siamo artigiani di una storia nuova, tessitori di speranza, costruttori di futuro, operatori di pace.

Gioacchino e Anna intercedano per noi: ci aiutino a custodire la storia che ci ha generato e a costruire una storia generativa. Ci ricordino l’importanza spirituale di onorare i nostri nonni e i nostri anziani, di fare tesoro della loro presenza per costruire un avvenire migliore. Un avvenire dove gli anziani non vengono scartati perché funzionalmente “non servono più”; un avvenire che non giudichi il valore delle persone solo da quanto producono; un avvenire che non sia indifferente verso chi, ormai avanti con l’età, ha bisogno di più tempo, ascolto e attenzione; un avvenire in cui per nessuno si ripeta la storia di violenza ed emarginazione subita dai nostri fratelli e sorelle indigeni. È un avvenire possibile se, con l’aiuto di Dio, non spezziamo il legame con chi ci ha preceduto e alimentiamo il dialogo con chi verrà dopo di noi: giovani e anziani, nonni e nipoti, insieme. Andiamo avanti insieme, sogniamo insieme e non dimentichiamo il consiglio di Paolo al suo discepolo Timoteo: “Ricordati di tua madre e di tua nonna” (cfr. 2 Tm 1, 5).


Il saluto dell'arcivescovo Smith

Camminare insieme


«I vescovi del Canada sono pienamente impegnati a camminare insieme alle Prime nazioni, ai Métis e al popolo Inuit. Siamo arricchiti dalla bellezza della loro cultura e dalla saggezza delle loro tradizioni. Rafforzati dall’intercessione dei santi Gioacchino e Anna, e accompagnati dal suo orante sostegno, rinnoviamo l’impegno a seguire la via della guarigione e della riconciliazione con i nostri partner e amici indigeni». Lo ha detto monsignor Richard W. Smith, arcivescovo di Edmonton, rivolgendosi a Papa Francesco a conclusione della celebrazione. «La nostra fervida preghiera», ha affermato, è che proprio la presenza del successore di Pietro «porti la grazia della guarigione e della pace di Dio. Molto resta da fare se vogliamo vivere in modo duraturo la riconciliazione che tutti cerchiamo. Dall’amore e dall’incoraggiamento, visibilmente manifestati in sua presenza, abbiamo ricevuto nuovo slancio per continuare il cammino, facendo sempre affidamento sui doni di Dio».